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Martedì, 23 Aprile 2024
Politica

Carducci: "Le mie dimissioni contro la faziosità e per difendere la presidenza"

In una lettera aperta la versione del preside di Scienze della formazione offre. "Gli studenti devono imparare a non confondere cittadinanza partigiana con faziosità. Col rettore nessuno scontro. Il mio gesto un atto di dignità"

di Michele Carducci  *

Intervengo sulla stampa perché la stampa riferisce e interpreta fatti che mi riguardano. Tutti noi, per civiltà costituzionale, abbiamo il dovere di rispettare le interpretazioni dei giornalisti, dei sindacati, degli Studenti, dei professori. Però un piccolo appello vorrei fare, traendo spunto da questa vicenda: non confondiamo la cittadinanza partigiana, che è sacrosanta, con la faziosità settaria. Tra me e il Rettore non ci sono “veleni”, “scontri”, “rese dei conti”, “corse” e “sgambetti” per le poltrone. Siamo Colleghi professori: non siamo praticanti Scilipoti dell’accademia.

Io mi sono dimesso proprio perché rispetto il Rettore. Mi rendo conto che suona strano. Questo è il Paese dove il “non mi dimetto” è considerato un gesto eroico e le dimissioni una confessione di colpa. Me lo hanno fatto notare in molti: “se ti dimetti, vuol dire che hai fatto qualcosa …”. Tuttavia, questa elaborazione riflette l’ermeneutica del nostro nanismo istituzionale. Del resto, non saremmo il Paese dei curricula politici conditi di condanne penali e tradimenti “multilivello” (dalla famiglia al gruppo parlamentare). Come scriveva il Grande Leopardi nello Zibaldone, “gli italiani non hanno costumi, coltivano solo usanze”: quella di non dimettersi è un’usanza tipicamente italiana.

Io invece mi sono dimesso perché mi riconosco nell’etica protestante delle Istituzioni, a  base delle democrazie più stabili del mondo. Nell’etica protestante, le dimissioni sono un elemento fisiologico dell’arte di governo, piccolo o grande che sia: un gesto semplice per significare che si ha dignità, che alla decenza non si rinuncia, come non si rinuncia all’onestà intellettuale. Dimettersi è una virtù.

L’ho fatto per contribuire nel mio piccolo a rendere meno faziosa la mia Università e l’ho fatto per gli Studenti di Link-UDU, perché imparino – è il mio dovere di professore – a non confondere cittadinanza partigiana con faziosità. Questi Studenti non si sono rivolti al Difensore civico dell’Università, al Consiglio degli Studenti, al rudimentale sistema dei reclami che stiamo mettendo su (noi, primi in tutta l’Università), alle Commissioni paritetiche. No, si sono rivolti alla stampa. Costoro non hanno utilizzato le nostre Conferenze di Facoltà per lamentarsi né hanno provveduto a inserire le loro ragioni in un apposito punto all’odg di un Consiglio di Facoltà, come nei loro poteri. Tanto meno mi hanno mai dato una mano nei problemi della Facoltà. No: invece delle garanzie, hanno preferito il potere; invece di un sistema istituzionalizzato e dialettico, fondato sul contraddittorio democratico, hanno optato per il ruolo monocratico e solitario del Rettore; invece della partecipazione costruttiva, mi hanno lasciato solo.

Questo è sbagliato: Sciascia, in uno splendido scritto del 1964, senza mezzi termini definiva simili eterarchie una tara delle istituzioni. Io non potevo rimanere indifferente.

Non credo che ci siano precedenti nelle Università italiane di una simile distorsione. È come se un giudice, sfogliando un giornale scandalistico e vedendo una mia foto sorridente con una donna, aprisse d’ufficio una procedura di divorzio da mia moglie e mia moglie ci credesse. Nessuno confonderebbe la foto scandalistica con la procedure di divorzio. Invece Link-UDU ha preferito la foto alle procedure. E il Rettore ci ha creduto, aprendo d’ufficio la “Commissione di inchiesta”.

Poiché io al Rettore voglio bene perché è il Rettore della mia Università, io avevo il dovere di rompere questo cortocircuito.

Ma io mi sono dimesso anche per difendere la dignità del lavoro e delle lavoratrici del mio ufficio di presidenza, sia a Lecce che a Brindisi. Solo chi lavora sbaglia. Al contrario, chi si limita a sanzionare gli errori, senza interrogarsi sulla loro causa e senza sforzarsi di proporne soluzioni, offende il lavoro. Magari produrrà sanzioni esemplari, ma non contribuirà affatto a creare buoni esempi dentro l’Università. Né, con la sanzione, avrà risolto i problemi.

Infine, da giurista, mi sono dimesso perché la “Commissione di inchiesta” nei miei confronti è illegittima per violazione del “giudizio tra pari”, garantito dal nostro Statuto.

Tutto qui. Nessun “veleno”, ma un microscopico contributo a rafforzare le istituzioni della mia Università. Io naturalmente le dimissioni le confermo, perché un’altra “usanza” nostrana è quella, simpaticamente rimarcata da Flaiano, che “ad essere irrevocabili in Italia non sono mai le dimissioni, bensì solo il loro annuncio”.

Mi auguro che gli Studenti Link-UDU sappiano interrogarsi su quello che è accaduto. Affinché maturino maggior coraggio intellettuale per la cittadinanza partigiana e minor attaccamento alla faziosità e al fascino del potere, suggerisco Loro gli istruttivi “Scritti corsari” di Pasolini.

Siamo professori e Studenti. Non siamo né serpenti velenosi né quaglie pronte al salto.

Preside di Scienze della Formazione  

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