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Giovedì, 28 Marzo 2024
Politica

Clientele, paura e pigrizia. Così Lecce resta prigioniera di uno specchio compiacente

Se la città ha un volto barocco, sontuoso e ammaliante per gli sguardi passeggeri, ha di certo un'anima feudale che la ingabbia e la condanna all'inerzia. Il motto è "non disturbare il conducente"

LECCE – Non svendere il voto. Con questo appello ai leccesi, in nome della dignità, della decenza, si è chiuso l’editoriale del direttore pubblicato nella giornata di ieri.

La città è imbrigliata da un sistema di clientele consolidato che si respira a pieni polmoni nei palazzi comunali e che altera completamente il concetto stesso di rappresentanza politica. Se Lecce ha un volto barocco, sontuoso e ammaliante per gli sguardi passeggeri, ha di certo un’anima feudale dove il favore è la distorta percezione del diritto, l’abuso l’esercizio cafone e arrogante del dovere.

E’ una città che si crogiola nel quieto vivere, che tende a nascondere sotto il tappeto i suoi tanti peccati, la sua sciatteria materiale e morale. Lecce si compiace perché è bella ma resta con lo sguardo fisso nello specchio per la paura e il fastidio di scoprire che oltre i suoi angusti confini ci sono stimoli e risorse che possono ridimensionarla.

Una città conformista, questo è, dove il dissenso politico, salvo rarissime eccezioni, danza sulle punte dell’inconcludenza e dove quasi tutti i presidi dell’anticonformismo sociale sono convenzionali, di maniera, pronti ad ammiccare al potere e a condividerne le dinamiche fino al giorno prima contestate quando gli viene concessa una briciola di visibilità, uno spazio pubblico, un becero patrocinio. Dirsi di destra o di sinistra, del resto, lascia il tempo che trova se la tara antropologica è la stessa.

La grammatica delle relazioni nel tessuto cittadino è fatta di sorrisini e strizzatine d’occhio, ma contemporaneamente di gelosie e invidie, di riverenze e strafottenza, di incontri di corridoio e di accordi nei caffè. In gran parte questi sono i tratti del provincialismo, ma con l’aggravante della supponenza, del non aver nulla da imparare, dell’altezzosa convinzione che di tutto e di tutti si può fare a meno, che non c’è nulla da imparare oltre il perimetro della tangenziale.

L’aria di Lecce è narcotizzante, il suo terreno una palude che risucchia. Una città condannata a tessere sempre la stessa tela, dove la maggior parte dei giovani crescono già vecchi perché abituati a uno spartito fatto di piccole e grandi consorterie, dove l’analisi critica è vissuta come lesa maestà, dove non bisogna mai essere insolenti e disturbare il conducente.

Lecce è avvolta in una coltre di finto perbenismo, dietro la quale si consuma una silenziosa e costante mortificazione di risorse e di competenze. Piena di professori e di allenatori di calcio. Ma nella quale non si scende in piazza a rivendicare qualcosa che abbia il profumo del bene pubblico, a difendere qualcosa che sia un patrimonio condiviso, a dire basta a qualcosa di profondamente scellerato dai tempi di Parco Corvaglia (qualcuno se li ricorda?). Una città che, per esempio, ha lasciato da soli gli operai dell’ex manifattura tabacchi in una vertenza che rappresenta il colpo più profondo in tema di lavoro e allo stesso tempo l’esito di una storia che ha a che fare con i processi economici internazionali, e la logica del profitto - dunque con le responsabilità degli "altri" -, almeno quanto con la colpevole miopia dell’apparato politico e sindacale locale che si è arreso senza nemmeno combattere.

Lecce è una città talmente monocorde che, quando si leva una voce nuova, lucida e concreta, come quella dell’attuale prefetto, Claudio Palomba, sembra che sia arrivato un marziano che parla di distretto turistico a un territorio che ha un tesoro ma lo sfrutto solo per il vantaggio di pochi e del tutto e subito, che parla di protocolli di legalità e controlli incrociati per scoraggiare le infiltrazioni nell’economia di una criminalità che per troppo tempo si è voluta ritenere sconfitta quando forse, invece, stava solo rifiatando e intanto si faceva più furba. E’ nient’altro che un uomo dello Stato, obbligato quindi alla prudenza, eppure le sue misurate analisi rivolte al discorso pubblico appaiono come lampi nel grigiore inerte.

Ma per avere qualche speranza di invertire la rotta non servono predicatori solitari e nemmeno eroi, che spesso diventano alibi per tutti gli altri e capri espiatori se le cose vanno male. Serve un umile e pacifico coraggio, quello di vivere la città come lo spazio del senso civico, della sana dialettica politica, del fecondo conflitto sociale, della declinazione di valori e pratiche comuni, e non solo come il luogo dove gli interessi di parte si incastrano secondo la logica del più forte e dove il più debole troverà sempre qualcuno più debole di lui cui ostentare una piccola medaglia di appartenenza al sistema. Ma il coraggio, come scriveva il Manzoni a proposito di don Abbondio “uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”.

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