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Giovedì, 25 Aprile 2024
Politica

La solitudine del candidato che il centrodestra non ha mai davvero amato

Da quasi sindaco a consigliere dimissionario: la parabola di Mauro Giliberti attraversa le tensioni del blocco politico e sociale che ha governato per 20 anni ma non le ricompone, finendo anzi per diventare il paravento di contrasti mai risolti

LECCE - Con l’avvicendamento tra Mauro Giliberti e Severo Martini, sale a sette il numero dei componenti della precedente giunta: oltre a Paolo Perrone, ci sono sin dall’inizio della consiliatura Luca Pasqualini, Gaetano Messuti, Andrea Guido e Luciano Battista . Dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha sancito l’anatra zoppa ha fatto il suo ritorno anche Attilio Monosi. A loro si affiancano altri esponenti del centrodestra con più o meno esperienza: da Michele Giordano e Angelo Tondo a Paride Mazzotta e Bernardo Monticelli. Le porte di Palazzo Carafa si sono aperte per la prima volta a Federica De Benedetto, Giorgio Pala, Alberto Russi. 

La legittima e per certi versi inevitabile scelta del giornalista di dedicarsi esclusivamente all’attività professionale, lascia ancora più scoperto un nervo che al centrodestra leccese ha procurato già diversi dolori: l’incapacità di avviare il ricambio di una classe dirigente che un ciclo di governo ventennale avrebbe imposto.

In effetti l’indicazione, sofferta e travagliata di Giliberti quale candidato dell’intera coalizione voleva essere un segnale proprio nella direzione del rinnovamento, ma la spinta propulsiva non c’è mai stata, anzi, quella scelta apparentemente di rottura o per lo meno di novità, in realtà figlia di una tregua per non far saltare equilibri sempre più precari, è stata sabotata dall’interno dello schieramento dove in molti hanno accolto come un paravento più che come un cavallo vincente.

Il centrodestra, insomma, riteneva di poter conquistare il quinto mandato consecutivo nascondendo le tensioni esplose soprattutto negli ultimi due anni dell’amministrazione Perrone tra le varie “correnti” e tra gli aspiranti candidati alla successione dietro il vessillo di un giovane preparato che in realtà è stato volutamente lasciato in balia dei marosi. Per poi dire che non aveva il sufficiente carisma. Chissà.

Nessuno, con una campagna elettorale che era oramai alle porte, ha voluto assumersi agli occhi della città la responsabilità di una rottura che stava logorando lo schieramento in un gioco di infiniti veti incrociati – da qui la necessità di un nome pescato al di fuori del ceto politico -, mentre tutti o quasi hanno cercato di far pesare il proprio malcontento rispetto ad una scelta imposta con il sigillo di Raffaele Fitto, innescando un gioco di sottrazioni e smarcamenti che ha penalizzato il candidato, come dimostrato da uno scarto di nove punti tra il suo risultato personale e quello complessivo delle liste. Quello che è venuto fuori dal ballottaggio è stato l'esito di un cedimento che non si è potuto mascherare con un maquillage perché l'elettorato di centrodestra ha avuto netta la percezione di uno scarso entusiasmo nei confronti del candidato.

La solitudine di Mauro Giliberti in consiglio comunale è sempre stata piuttosto tangibile: mentre il sindaco eletto, Carlo Salvemini, era pronto a riconoscergli prima il ruolo di presidente dell’assise cittadina e poi, davanti al rifiuto riccevuto, a considerarlo naturalmente il capo politico dell’opposizione, i suoi colleghi di schieramento lo hanno vissuto come una specie di corpo estraneo. Così è riemerso subito quel pluralismo caotico di protagonisti e di strategie che la candidatura del giornalista non era riuscita a ridurre a una ragionevole e sostanziale unità di intenti. In questi mesi, nelle sedute di consiglio, l’opposizione ha di fatto sempre parlato a più voci tanto che non è si è mai capito se ci fosse veramente un leader: ci tra Paolo Perrone, il sindaco uscente, Gaetano Messuti, il sindaco in pectore, Mauro Giliberti, il sindaco mancato?

L’errore di valutazione di Giliberti è stato quello di confidare ingenuamente e forse con un pizzico di supponenza in una vittoria nonostante tutto e di sottovalutare le conseguenze sul bacino elettorale della scommessa di Delli Noci, ma quando all’appello gli sono mancati migliaia di voti ha dovuto fare i conti con una realtà diversa da quella che aveva immaginato con l’ottimismo tipico di quel ragazzo perbene e generoso che è sempre stato. Insomma gli stessi attriti di coalizione che ne hanno favorito la candidatura si sono rivelati ostacoli insormontabili nel segreto dell’urna e invece di trovare mani tese che lo aiutassero a rialzarsi, ha trovato le spallucce di chi, tutto sommato, non è rimasto poi troppo male per come è andata a finire. A queste persone, probabilmente, adesso sente di non voler dare più pretesti ributtandosi a capofitto in un percorso professionale che lo ha già portato lontano.

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