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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Politica

Il corsivo. La Repubblica del presidente per salvare un partito che non c’è più

Negli ultimi giorni sono emerse tutte le contraddizioni interne ai democratici, sin dalla fondazione impegnati in un estenuante gioco di correnti. Ma l'accanimento terapeutico per preservare l'unità non serve: buona parte dell'elettorato è in fuga

LECCE – Mortificato, avvilito, traumatizzato da due schiaffi consecutivi che ne hanno certificato l’impotenza davanti alle scorrerie delle bande organizzate nel Pd – partito defunto -, il fantasma di Pierluigi Bersani ha pescato la carta fuori dal mazzo per evitare che il suo nome fosse consegnato alla storia come quello del segretario che doveva essere rottamato e che, invece, ha finito per archiviare la repubblica parlamentare in luogo di un regime quasi presidenziale di fatto, sulla scia dell’ultimo anno del precedente mandato di Giorgio Napolitano.

Consigliato da una cerchia ristretta di strateghi raffinati – Enrico Letta si staglia come ibrido tra sir Francis Walsingham e il cardinale Richelieu -, gli stessi che non avevano saputo o voluto prevedere il naufragio delle candidatura di Franco Marini e Romano Prodi, il dimissionario capo della federazione delle correnti che compongono il Pd ha messo sul tavolo il nome al quale nessuno poteva dire di no. Né Renzi, che il suo obiettivo lo aveva già raggiunto quando si è resa manifesta incapacità di Bersani di tenere insieme l’armata Brancaleone, né il buon Civati, ancora troppo acerbo e insicuro per promuovere una rivolta in campo aperto.

Avendo constatato l’inaffidabilità delle assemblee dei parlamentari e dei delegati che avevano discusso nelle due sere precedenti le ipotesi di candidatura  – la prima volta  è andato in scena un dramma, la seconda una farsa, due generi diversi con la stessa compagnia  -, Bersani e la sua cricca hanno scientemente evitato di sondare il proprio elettorato per cercare quella bussola che i grandi elettori del Pd (molti in realtà piccoli piccoli) non avevano saputo trovare. Se lo avessero fatto, del resto, avrebbero preso atto in un nanosecondo che a Stefano Rodotà – quel losco figuro che parla di diritti e di laicità senza complessi di inferiorità nei confronti della Conferenza episcopale italiana - non c’erano alternative altrettanto credibili. Non sorprende, infatti, che prima ancora che re Giorgio sciogliesse la riserva la Cei, per bocca di uno dei suoi vescovi, lo tratteggiasse come l’uomo della provvidenza. Il disegno si stava compiendo.

E’ veramente curioso come “l’ultimo comunista” – così Pasquale Chessa nel volume dedicato al presidente uscente e riconfermato – sia stato lusingato dal potere episcopale italiano ed è quantomeno paradossale che sia stato lungamente applaudito a Montecitorio da quel Pdl che, sette anni addietro, nemmeno si alzò in piedi al momento della sua prima elezione. Misteri della fede. Ma bisogna tornare al partito defunto: ogni altra divagazione potrebbe suonare come attenuante generica.

Rodotà avrebbe presumibilmente spaccato a metà l’ensemble democratico, facendo emergere le due vere anime che sin dall’inizio ci sono state in una sorta di dialettica nascosta come la polvere sotto il tappeto: quella che guarda alla propria destra dai banchi dell’emiciclo, l’asse Boccia-Di Girolamo insomma, e quella che punta ancora alla costruzione di un soggetto socialdemocratico e laico. Davanti a questa prospettiva imbarazzante, lo smacchiatore di giaguari ha preferito guardare indietro perché il suo necrologio politico fosse meno impietoso. E, a giudicare dal coro unanime di osanna dei maitrê a penser del giornalismo progressista italiota che hanno acclamato la svolta presidenzialista, Bersani è uno al quale già bisognerebbe concedere l’onore delle armi.

Salvata apparentemente l’unità di un partito con la proroga dell’accanimento terapeutico, Bersani ha consegnato il Paese ad una prospettiva politica che lui stesso aveva osteggiato – o finto di avversare – per tutta la campagna elettorale: quella di un governo di larghe intese che in nome della responsabilità nazionale, del prestigio internazionale, di Cip & Ciop e delle alici marinate, faccia ripartire l’economia e prepari il terreno a quelle riforme costituzionali che tutti invocano perché fa tendenza.

Con il Pdl che gongola – le facce di Berlusconi, Alfano e Verdini erano di gran lunga più entusiaste di quelle dei satrapi democratici, meno Boccia, naturalmente, che è convolato in pratica ad una nuova luna di miele – e Monti che avrà il tempo di riorganizzare la sua area di tecnocrati presentabili che parlano tre lingue, sarà impossibile mettere mano ai principali temi che stanno a cuore a quegli extraterrestri che sono le persone normali che votano per il centrosinistra: il lavoro, il conflitto di interessi, la redistribuzione del carico fiscale, il reddito di cittadinanza, l’inasprimento delle pene per tutti quei reati che sono stati allegramente derubricati a marachelle nel corso degli ultimi quindici anni. Forse il tripartito tirerà fuori una nuova legge elettorale, ma nuova non significa migliore: considerando che tutti i parlamentari di Pdl e Scelta civica sono nominati garantiti del Porcellum così come lo sono alcuni del Pd, e guarda caso sono tutti quelli che hanno osteggiato con maggiore acredine l’ipotesi Rodotà, non meraviglierebbe nessuno se alla fine la montagna partorisse il topolino.

Con l’inizio della fase (quasi) presidenzialista – non sfugga a nessuno, come ricorda Mario Calabresi su La Stampa, che Napolitano potrebbe sciogliere le Camere o dimettersi se si rendesse conto di essere caduto in un tranello – c’è però la possibilità di ridisegnare la geografia politica in maniera che l’elettore sappia che ad ogni partito o movimento corrisponda una vaga idea di Italia, di Europa, di Mondo. Tutte cose che al partito defunto, sin dalla sua fondazione, sono mancate.

Ora forse qualcuno col sale in zucca se ne è accorto: il riferimento non è ai giovani turchi né ai giovani vecchi che hanno lasciato che il Pd, a tutti i livelli di rappresentanza, sbagliasse negli ultimi anni tutto quello che si poteva sbagliare senza mai avere il coraggio di alzare la manina. Ma è troppo tardi. Per fortuna c’è una buona notizia in tutto questo: si aprono praterie per una nuova sinistra che non sia né nostalgica né utopistica, ma capace di stare con entrambi i piedi piantati nel terreno della vita quotidiana anche a costo di mettere in discussione i sacri totem che nascondono vagonate di privilegi e pratiche di autoconservazione nel tessuto sociale ed economico ancor prima che politico. Ci vogliono volontà e pazienza. Altrimenti restano i social network dove riversare la propria frustrazione.

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