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Elezioni Politiche 2013

Il Partito democratico davanti al bivio: c’è in gioco il futuro della sinistra

Il risultato inchioda Bersani: o un governo con il Pdl oppure una trattativa sui contenuti con il Movimento Cinque Stelle. Da questa scelta dipende il profilo dello schieramento progressista. Dove è tempo di vero rinnovamento

LECCE – Dopo una giornata di passione politica nella quale sono stati attraversati tutti i colori dell’arcobaleno emozionale, il dato numerico produce alcune certezze e poche vere prospettive. Il “Porcellum” ha manifestato tutte le sue conclamate illogicità: in una situazione di pareggio di fatto alla Camera dei deputati, ha consegnato una maggioranza netta al centrosinistra con il premio di governabilità.

Al Senato, dove Pd e Sel hanno vinto con un distacco per lo meno percepibile in termini di voto popolare e di numero di regioni conquistate, lo schieramento di Bersani resta al palo con tre soli seggi di vantaggio, un margine che non serve a un bel nulla. Un correttivo potrebbe essere quello di far scattare il premio di maggioranza su base regionale solo in quelle regioni il cui orientamento coincide con quello popolare nazionale, attenendosi per il resto ad un riparto proporzionale.

Il cerino è in mano a Bersani che, tecnicamente, ha vinto avendo più eletti in entrambe le camere. Quanto basta per dire che il Pdl ha perso pur potendosi consolare di aver inflitto talmente tante perdite al nemico da aver creato i presupposti di una vittoria di Pirro. I democratici, ora o mai più, sono chiamati ad una scelta decisiva per la loro stessa ragion d’essere che è sempre stata oggetto di una miriade di interpretazioni, non essendo in grado, tra l’altro, di darsi una collocazione precisa nemmeno sul piano europeo, dove non fanno parte della grande famiglia del Partito socialista.

Più che chiamati, in realtà, sono stati condannati dal voto espresso dai cittadini italiani: nel successo del Movimento Cinque Stelle pesa come un macigno la delusione dei fuoriusciti dai due principali schieramenti, ma quello che ha ingannato gli strateghi del Pd è stata la convinzione che bastasse una maggiore sottrazione di voti al Pdl per consentire a Bersani di vincere bene. Anche perché, con l’operazione volenterosa ma imperfetta delle primarie, democratici e Sel pensavano di aver puntellato la tenuta del proprio recinto. Un calcolo che si è rivelato miope e che, ancora una volta, ha certificato una distanza dal Paese reale cronica ma non per questo meno preoccupante: rappresentare un italiano su quattro non è abbastanza per dirsi in sintonia. Tanto più se un altro italiano dei tre rimanenti la pensa in maniera diametralmente opposta.

Bersani ha davanti a sé due strade: trattare con Berlusconi, che per prima cosa chiederà la Presidenza della Repubblica per Gianni Letta, la formazione di un governissimo - o esecutivo dell’inciucio che dir si voglia - che faccia alcune cose con l’obiettivo primario di rassicurare i mercati, gli speculatori, le banche e gli investitori. Ipotesi in un certo senso favorita dal fatto di essere nel semestre bianco, quello in cui Giorgio Napolitano, arrivato al termine del suo mandato, non può sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. D’altra parte questa prospettiva, alla luce dei numeri, è seriamente imbarazzante per il Pd ma ancor più per il Pdl, che dopo aver rinnegato il sostegno a Monti come il peggiore dei peccati, si troverebbe di nuovo costretto a giustificare un tecnicismo d’alta scuola.

IMG_1983-3I democratici, seguendo quella strada, potrebbero illudersi di crearsi condizioni migliori per non farsi sfuggire una vittoria convincente alla prossima tornata. Ma, a questo punto, non possono non sapere che perderebbero ulteriori pezzi del proprio elettorato in libera uscita per chissà quale costellazione della galassia della sinistra italiana (o verso il M5S), dopo aver già lasciato lungo la via qualcosa come tre milioni di voti rispetto al 2008.

Resta allora una sola opportunità: mettersi a sedere con Grillo e i suoi e offrire alla loro valutazione un programma fatto di cinque, sei punti qualificanti in senso riformatore – a partire dalla legge elettorale e da provvedimenti di equità sociale – a partire da una riforma del welfare che aiuti chi sta peggio -: questioni rispetto alle quali un eventuale diniego del Movimento Cinque Stelle sarebbe difficile da argomentare ai milioni di italiani che rischiano ogni giorno il posto di lavoro per un capriccio delle borse e che, in buona parte, hanno votato per il nuovo soggetto politico. Nell’ipotesi che questo azzardo non andasse in porto, Bersani potrebbe rivendicare di averci provato riconquistando una fetta di quel patrimonio di stima e rispetto necessario a rappresentare la maggioranza del Paese e ponendo già le basi di una prossima campagna elettorale.

Nel frattempo, e non è aspetto meno rilevante, va portata fino in fondo quell’operazione di rinnovamento solo parzialmente e timidamente avviata con le primarie. Ci vuole di più, e non è solo questione di regolamento per consentire una partecipazione più libera alle consultazione: ci vuole il passo indietro di un’intera generazione di dirigenti che, sul territorio, hanno perso terreno, radicamento, credibilità. Questo spaccato di classe politica, che troppo spesso vanta un presidio ultradecennale delle postazioni secondo un principio di progressione gerarchica che non tiene nemmeno conto dei risultati elettorali, ha adesso l’obbligo morale di consegnare il partito alle persone, non necessariamente giovani – perché alcuni di essi sembrano già vecchi dentro - ma almeno “fresche” mentalmente: persone che hanno ancora il gusto di battere le città, quartiere per quartiere, e non solo di chiedere voti fingendo di sapersi adattare alla realtà con la frequentazione dei social network.

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