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Politica

"Povera patria", eterna colonna sonora di un Paese roso da sprechi e conflitti

Dai fatti di Caserta a quelli di Roma, passando per le cronache salentine, va in scena la tragedia di un Sud che è la vera vittima di una politica finora confusa e minuscola. E che adesso più che mai ha l'obbligo morale di risposte concrete

LECCE – Un corollario di dejà vu lessicali tipici del bagaglio di ha consumato i palcoscenici dei palazzi sta raggiungendo in queste ore le redazioni di tutta Italia, e le più piccole della provincia leccese non scampano a questo noioso rituale. Un bombardamento di comunicati telematici che una volta tanto omettiamo con piacere. In piena par condicio: niente destra, niente sinistra, niente centro, niente ibridi, niente indefinibili, per non ingolfare il giornale di chiacchiere vuote.

Perché non ce n’è uno, uno soltanto, capace di fare un volo su vette un po’ più alte, quelle che conducono all’ammissione di responsabilità. Non ce n’è uno che, nella sua nota, dica: “Sì, è anche colpa mia: a tutto questo ci siamo arrivati anche per ciò che non ho saputo fare e le cose peggioreranno se continuerò a starmene qui ad inviare comunicati, invece di mettermi a lavorare per il Paese”.

E invece, giù con banali chiavi di lettura, stiracchiati spunti di riflessione e un’unanime (scontata) condanna per i fatti di Roma, e, per estensione, anche di Caserta, senza lo spessore di una vera analisi. E di un’autoanalisi. Il non plus ultra dell’ovvio, cucinato a mezzo note stampa da una classe politica priva di idee, che pone interrogativi astratti senza mai guardarsi davvero allo specchio. Chi parla di tensione sociale, chi di insicurezza, chi di antipolitica, e via dicendo. Come se fossero loro i cittadini messi alle strette, e non quelli che dai cittadini hanno ricevuto un mandato proprio per lenire gli effetti della tensione sociale, dell’insicurezza e dell’antipolitica.

Più di qualcuno ha scelto l’alternativa del silenzio. Troppo facile anche questa via. Non sempre i silenzi sono carichi di significati. A volte celano soltanto imbarazzo e inconfessabile senso di colpa. 

Non c’è molto da commentare, in realtà. C’è solo da fare. E rifare. Un Paese spaccato, diviso, disilluso e spaventato a morte del proprio futuro. E per fare, anzi, rifare, bisogna puntare lo sguardo un po’ più in profondità.

Dietro alle vicende di cronaca, ci sono storie. Dietro ad ogni persona, c’è un passato che determina il presente. Mentre a Palazzo Chigi andava in scena il cerimoniale del giuramento, fuori si consumava la tragedia di una sparatoria apparentemente senza un senso logico. E invece, è bastato scavare un po’, per capire che tutto era riconducibile al dramma intimo di un uomo di Rosarno, Luigi Preiti, emigrato ad Alessandria e ritornato sconfitto in Calabria.

Quasi una macabra (e fin troppo reale) riedizione di Bill Foster, il personaggio interpretato da Michael Douglas in “Un giorno di ordinaria follia”. Esattamente come nel film di Joel Schumacher, Preiti, separato, senza più un lavoro, nell’instabilità più totale, un giorno ha dato di matto ed ha iniziato una confusa battaglia contro la società. Armato, ha fatto fuoco contro due carabinieri. Il brigadiere Giuseppe Giangrande, 50enne, siciliano, vedovo e con una figlia poco più che ventenne, ora lotta in un letto d’ospedale: la pallottola gli ha leso al colonna vertebrale cervicale. Per terra, colpito ad una gamba, è finito anche un altro militare dello stesso battaglione, il “Toscana”, Francesco Negri, carabiniere scelto 30enne, di Torre Annunziata.

Qualcuno ci ha fatto caso? Tutti meridionali, ancora una volta, sempre di più. Come i ragazzi che vanno a farsi saltare in aria in Afghanistan. E come nel brutto finale di un’altra storia, che è proprio dietro l’angolo, e che affiora dalle cronache del giorno precedente. E’ quella di Tiziano Della Ratta, appuntato del casertano, ammazzato durante una rapina.

Il dramma nel dramma è quel vortice che risucchia tutto ciò che viene dal Sud: i carabinieri del Sud, un disperato del Sud senza più niente da perdere e pericolosi criminali del Sud. Questo Sud così grande, così ricco di contraddizioni, così forte e così debole, abbandonato e un po’ piagnone, ma anche armato di coraggio e inventiva, eternamente svilito da una perdurante, diffusa figura in penombra dello Stato. Non bastano, infatti, le isole delle Procure più combattive. Serve una politica votata all’esercizio di una reale democrazia, refrattaria alle infiltrazioni mafiose, che abbia in odio gli sprechi, che prenda sul serio il suo ruolo, per determinare la rotta del cambiamento ed evitare la deriva.

Ed ecco, invece, ancora una volta uno spaccato di questo maledetto Sud che sembra un malato in eterna fase terminale: da una parte, carabinieri (lavoratori), che rischiano la pelle e spesso si prendono critiche e offese gratuite, e che invece non dicono mai una parola fuori posto neanche davanti al bagno di sangue dei propri colleghi. Dall’altra, disoccupati, persone che forse oggi, sarebbero diverse, se lo Stato avesse offerto una possibilità in più. Due facce della stessa medaglia.

Si sono chiesti, i signori della politica, per quale stipendio mandano le forze dell’ordine in giro a farsi crivellare di colpi? E si sono domandati, se hanno davvero fatto tutto ciò che era possibile per evitare che altri si trasformassero in spietati criminali?

Si guardassero dentro, una buona volta, e poi alzassero gli occhi e osservassero tutte queste persone. Sono i loro elettori. Sono i figli di periferie polverose e di cemento che loro stessi hanno creato e incentivato, ai quali rivolgersi troppo spesso solo per elemosinare il voto in cambio di fumo negli occhi, infondendo un profondo senso di anti-Stato, proprio loro che ambiscono ad essere rappresentanti dello Stato.

E così, qualcuno alla fine s’è arruolato ed è andato per strada a rischiare la pelle (alcuni per servire un’ideale dello Stato, altri anche solo per non rimanere senza un tozzo di pane). Altri hanno preso brutte vie. La rabbia cieca monta nel senso di abbandono e può spingere i deboli come Preiti a gesti inconsulti, mentre la malavita arruola nelle sue file sbandati come i rapinatori di Caserta, attirandoli con il sogno del guadagno facile. Guardare le cronache salentine, per avere un’idea fatta in casa: quanti casi, ogni giorno, non si trasformano in tragedia per un nonnulla. Ancora oggi due rapine, solo ieri tre.  

In mezzo, cittadini che hanno ancora valori, e che sperano non cadano in pezzi, frantumati dalla crisi.  Intorno, il vuoto della classe politica. Paga del voto incassato e litigiosa, abbarbicata fino ad oggi alla sua poltrona a difendere privilegi. Ma i palazzi non devono essere più campane di vetro, da cui osservare il mondo che scorre. Sono ormai ventidue anni di fila che il sottofondo di Franco Battiato, “Povera patria”, resta di una sconcertane attualità. Sarà anche ora che cambi musica, in questo Paese.  

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