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Né soluzione, né problema. Le primarie come paravento per i partiti in crisi di idee

Adottate per allargare la base del consenso elettorale ai non militanti, anche le primarie iniziano a subire i colpi della disaffezione. Ma la responsabilità non è del mezzo quanto dei movimenti sempre meno connessi con la realtà sociale ed economica

LECCE – Le primarie sono diventate un paravento. Dietro il quale il centrosinistra cerca di mascherare le proprie contraddizioni, davanti al quale il centrodestra gioca al tiro al bersaglio per nascondere in realtà l’impreparazione per la sfida delle regionali della prossima primavera.

Importate come strumento per facilitare la partecipazione dei cittadini nei processi di selezione della classe dirigente, una volta compreso che la forma tradizionale di partito andava verso l’implosione, le primarie hanno assunto il valore di un rito catartico collettivo nel quale si rigenerano le speranze di un elettorato sempre più disorientato da un dibattito politico con pochi contenuti, troppi slogan e continui trasformismi.

Ma, come tutte le liturgie, il rischio è che dietro la forma svanisca la sostanza. Tanto che la disaffezione evidente nei trend decrescenti di tutte le tronate elettorali ufficiali, si fa sentire oramai anche nelle consultazioni informali. E allora vien fuori la solita divergenza di opinioni: un flop, secondo Forza Italia e soci, sarebbero state le primarie del centrosinistra di domenica scorsa; un’insperata boccata di ossigeno, invece, per Pd e alleati, che avevano fermato la soglia della “dignità” a 60mila partecipanti.

Sono state per giunta copiate male le primarie, come spesso accade quando un modello di "fabbricazione straniera" arriva in Italia, e sin dall’inizio si sono prestate ad essere influenzate da una partecipazione interessata degli avversari. Hanno ragione coloro che chiedono una regolamentazione più coerente, soprattutto quando si tratta di primarie di partito, quelle che cioè chiamano in causa i militanti e gli elettori più fedeli. Una procedura di pre-registrazione potrebbe almeno servire a scoraggiare tentativi di infiltrazione che spesso prendono forma negli ultimi giorni prima del voto. In quelle di coalizione, invece, è già più complicato trovare un filtro adeguato perché se l’obiettivo oramai dichiarato è individuare il candidato che allarga l’area del consenso strutturato (che tendenzialmente si ritrae) fino al potenziale astensionismo (che tendenzialmente aumenta), allora è coerente con la premessa l’assenza di vincoli rigidi, con tutto quello che ne consegue.

Ma il problema vero della divaricazione tra Paese dei palazzi e Paese reale non sono certo le primarie– sempre meglio, in democrazia,  poter esercitare una scelta che non farlo - quanto l’aderenza dei partiti all’attuale fase storica e il loro modo di dialogare con la realtà e con i bisogni dei cittadini.

Se infatti è stata la crisi irreversibile della cosiddetta Prima Repubblica a favorire l’adozione di forme “liquide” nelle organizzazioni politiche, è altrettanto vero che il sistema partitico ha mancato nel suo complesso l’appuntamento con il rinnovamento culturale che pure sarebbe stato necessario, limitandosi a operazioni fumose e di facciata, finendo quindi per ripiegare verso una personalizzazione esasperata della competizione elettorale e una ricerca affannosa del salvatore della patria, in linea con una società oramai deformata da modelli di comportamento sempre più individuali.  

Questo deficit ha condizionato anche la storia recente della sinistra pugliese, che pure è stata ed è vista come un laboratorio originale: nell’immaginario collettivo, nell corso degli anni, da una parte si è venuto profilando un modello alla Vendola (l’idea che vuole diventare azione di governo), dall’altro quello alla Emiliano (l’azione che vuole diventare idea di governo). Versioni capovolte di uno schema simile perché sembrano quasi aderire ai caratteri di ciascuno: come se la politica del governatore e dell’ex sindaco fossero una sorta di risultante dei loro pregi e difetti. Mentre i movimenti che ne sostengono le gesta appaiono ancora oggi più preoccupati degli equilibri di corrente al loro interno che di ciò che accade al di fuori, girando l’angolo della strada. E all’ombra delle personalità “forti” si muovono agevolmente disinvolti gruppi di potere, sempre più determinanti nel condizionarne il destino politico in mancanza di adeguati contrappesi. C’erano una volta i partiti.

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