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Addio all'ultimo eroe della Resistenza: ma le istituzioni e i giovani non ci sono

Umberto Leo si è spento martedì all'età di 89 anni: ha contribuito in prima linea, sin dal primo giorno, alla lotta contro il nazifascismo combattendo in Piemonte. Ferito al torace dalle schegge di una granata, tornò nel Salento nel luglio del 1945

LECCE – Nel pomeriggio di oggi, nella chiesa di Santa Rosa, si è tenuto il funerale di Umberto Leo, presidente provinciale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, deceduto ieri all’età di 89 anni. Era l’ultimo combattente leccese nella lotta al nazifascismo ancora in vita. A salutarlo tutta la sua famiglia e i militanti dell’Anpi, oltre ad alcuni abitanti del quartiere. 

A parte un telegramma del prefetto, Giuliana Perrotta, e una lettera del deputato del Pd, Salvatore Capone, non vi è stata traccia di una testimonianza di cordoglio da parte delle istituzioni, ma nemmeno da parte delle formazioni politiche giovanili o di quelle movimentiste che si richiamano ai valori dell’antifascismo. Alle esequie hanno partecipato solo un paio di esponenti della politica cittadina. Eppure Umberto Leo è stato uno dei leccesi – e a dire il vero non sono stati molti – che hanno fatto la storia di questo Paese entrando in una dinamica molto più ampia di quella di un destino personale. Proprio tra pochi giorni ricorre il 70esimo anniversario della Liberazione.

Con il nome di battaglia Leos, è stato in prima linea nella Resistenza con la 19esima Brigata Garibaldi “Eusebio Giambone”, in Piemonte. Si unì alla lotta antifascista a soli 17 anni, subito dopo l’armistizio, quando era volontario della guardia di confine a Cogne. Testimone oculare degli eccidi durante i rastrellamenti tedeschi e fascisti, si rese protagonista di numerose azioni di sabotaggio, di scontri a fuoco e di rapimenti di ufficiali tedeschi usati come pedine di scambio per la liberazione dei partigiani catturati.

umbertoleo-2-3In un’occasione rimase gravemente ferito dall’esplosione di una granata, ma venne tratto in salvo da un contadino che lo portò al sicuro nella propria cascina. Trascorse un breve periodo nella casa di una farmacista del Monferrato, prima di essere raggiunto dai compagni di brigata e trasportato nell’ospedale da campo e solo dopo venne a sapere che in quegli stessi giorni di sofferenza e speranza era stato ricoverato sotto lo stesso tetto anche un ufficiale tedesco, al quale era stato amputato il braccio.

I giorni della liberazione, nell’aprile del 1945, li trascorre a letto, ancora provato dalle ferite al torace, ma nel luglio decide di tornare a Lecce. Una volta rientrato nella sua città lavora come esattore e poi come impiegato dell’anagrafe comunale. Nel dopoguerra è stato a lungo segretario provinciale dell’Anpi di cui era stato nominato di recente presidente. 

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