Pensiero di un cittadino qualunque sul Coronavirus.
Un giorno lo racconterò a mio figlio Mi immagino così: è domenica pomeriggio, con la famiglia riunita. Davanti a me una creatura che mi guarderà con gli occhi trafitti dallo stupore. Ascolterà queste parole. Ho vissuto mesi chiuso a casa. Non avevo modo di uscire. Per le strada girava la polizia, sembrava la guerra. Che poi non era così diverso. Il 12 marzo 2020 cadeva il silenzio sull’Italia, sulle città. I bar avevano smesso di sprigionare profumo di caffè. I locali non cantavano più. Le strade buie sembravano il deserto. Notte-giorno ricoperti da un pezzo di stoffa. Era la nostra seconda pelle. Un po’ come l’abbronzatura, ma meno piacevole.
Avevamo tanto tempo. Persino per recuperare le vecchie abitudini che, complice la routine di tutti i giorni, avevi ingiustamente messo da parte. Passeggiavi su e giù per il corridoio di casa. Sguardi di speranza con chi era a casa e via, nell’altra stanza. Poi c’era un numero, un’orario per la precisione. Le 18. Credo che noi tutti, quelli del Coronavirus, avremo cancellato questo numero dai quadranti degli orologi. Sono le 18:00. Oggi il bilancio dei morti è drammatico. Domani lo sarà di più. Poi la sera. Il buio. Il telegiornale. Ogni notizia era uno schiaffo. Non c’era altro. Ma si andava avanti. Ne siamo usciti. Alcuni lo hanno potuto dire. Altri no. E poi? Il modo di vivere è cambiato. E come se è cambiato.