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"Le conseguenze dell'amore" nel caso Chiricò. Cause e rischi di un paradosso

Era tutto prevedibile: l'ingresso in partita del calciatore, inviso a una parte del pubblico, ha aperto una frattura che bisogna in ogni modo sanare

LECCE – Io lo sgomento che si può provare nel dover strozzare un urlo in gola quando la propria squadra del cuore segna, non lo posso capire perché, pur avendo avuto mille motivi per essere deluso, arrabbiato, frustrato, ho sempre esultato, anche fosse il gol della bandiera in un partita ampiamente compromessa. Per questo non giudico con la certezza di chi presume di avere ragione a priori, ma osservo.

Io la cosiddetta mentalità ultras per la quale la "coerenza" non accetta mediazioni, anche quando tutto sembra suggerire il contrario, non la posso capire perché pur avendo ininterrottamente seguito il Lecce da 35 anni e fatto un numero imprecisato di trasferte, da tifoso e solo negli ultimi anni da cronista sportivo, non ho mai pensato che ci potesse essere qualcosa di più importante - chiamiamolo orgoglio, chiamiamola dignità - che sostenere la propria squadra nei 90 minuti. Anche per questo non giudico, avendo imparato che il calcio si regge sul sottile e contraddittorio equilibrito tra passione e ragione, slancio senza limiti e calcolo.

Ci sono molte cose che non posso capire rispetto a un mondo che ho vissuto da vicino, ma mai pienamente da dentro, ma certo non posso pensare che quanto accaduto ieri sia stato fatto a cuor leggero. I vessilli ritirati, il coro contro la società e dunque contro Saverio Sticchi Damiani che ha risollevato i destini del calcio leccese, il coro contro un allenatore, Fabio Liverani, che ha riportato il Lecce in serie B, primo tra una dozzina di suoi colleghi che si sono avvicendati in sei maledetti anni, sono il manifesto di una decisione, quella di far entrare l’indesiderato Chiricò, vissuta come un tradimento, come la rottura di un patto non scritto.

Le responsabilità, in questa vicenda, partono da lontano e non risparmiano nessuno. Se non si accetta questa premessa, sarà impossibile uscirne bene, e per bene si intende l’interesse dei colori sociali. Prendere Chiricò nel pieno dello scorso inverno, volutamente a fari spenti, è stata un’operazione, evidentemente sottovalutata nelle sue conseguenze, ad alto rischio di “impatto ambientale”: troppo noti i precedenti di incompatibilità per sperare in un oblio, in una indulgenza, tanto è vero che l’avversione nei confronti del calciatore brindisino alligna anche in settori diversi dalla Curva Nord. Così come è vero che nella stessa curva, pur condividendo la sostanza della protesta, molti ieri si sono sentiti disorientati, confusi.

Le avvisaglie della crisi c'erano tutte: il clima è stato rovente sin dal primo allenamento nel Salento, in piena estate, e già allora è parso chiaro che l’unica via d’uscita per non “rompere il giocattolo” sarebbe stata quella di una cessione che comunque avrebbe portato qualcosa in cassa a fronte di un tesseramento a parametro zero. Di interessamenti per Chiricò ce ne sono stati, di trattative solo quella con la Ternana che, se ripescata in B all’esito dell’udienza del Collegio di garanzia dello Sport, potrebbe dopo il 7 settembre finalmente accogliere a braccia aperte il calciatore.

Più che concentrarsi sulle responsabilità, bisogna chiedersi infatti come uscirne da questa situazione che rischia di influire negativamente sull’andamento del Lecce in campionato. Tenere il ragazzo, e il contributo tecnico che può dare alla causa, vale il prezzo di una frattura insanabile con la parte più calda della tifoseria? Cedere il calciatore significherebbe invece piegarsi a un diktat? Non ci sono risposte facili a queste domande, ma nel trovare le risposte, un concetto andrebbe ribadito: il Lecce, come ogni altro fenomeno imbevuto di una passione storica e collettiva, non ha un proprietario esclusivo. Per assurdo, non appartiene solo ai suoi azionisti, non appartiene nemmeno solo alla Curva e nessuno può esercitare un diritto di arbitrio assoluto sulle sorti del club, salvo voler palesare un atto di imperdonabile protervia.

Cosa saggia sarebbe meditare a fondo su quanto accaduto e trovare il modo di non rompere il sottile filo che conduce tutte le componenti dell’universo Lecce verso un unico, indissolubile, destino. Spetta a chi ha causato questo scenario valutare bene tutte le opzioni. Di errori ne sono stati commessi, non c'è dubbio: il primo, il vizio d'origine, è stato già detto, è quello dell’ingaggio. Un altro lo ha commesso ieri sera Liverani, perché nella plausibile ipotesi di un ripescaggio della Ternana, avrebbe potuto attendere il 7 settembre prima di scatenare, se proprio necessario, un putiferio annunciato. Anche la contestazione, condivisibile o meno, fondata oppure no, deve essere declinata in maniera diversa, in modo da avere meno effetti collaterali possibile sulla squadra che quei gloriosi colori è chiamata a difendere.

Ci si sforzi dunque di dare sostanza alla parola che tutti evocano, rispetto. Non esiste rispetto se manca il riconoscimento delle ragioni altrui e della buonafede e il rispetto, per essere sincero,  non può essere solo preteso in maniera unilaterale. Il braccio di ferro farà solo danni alla causa del Lecce, questa è l’unica certezza in questa situazione paradossale di cui non si sentiva alcun bisogno dopo sei stagioni trascorse all'inferno. Ricette non ne ho, ma so che un'atmosfera come quella del finale di gara di ieri non si dovrebbe più vivere. Mi viene solo in mente la citazione di uno dei miei film preferiti che dice: "Mai sottovalutare le conseguenze dell'amore". Il resto è una sensazione di profonda tristezza.

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