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"A sud di Maradona": quando il calcio riscattò il Salento dall'emarginazione

E' disponibile il saggio che attraverso le gesta e la parole di Barbas e Pasculli, protagonisti assoluti degli anni ruggenti del Lecce, racconta il percorso di emancipazione di una coscienza popolare condannata alla marginalità sociale e culturale

LECCE – Tra la metà degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta il calcio, a Lecce e provincia, ha assunto una dimensione mistica.

Dall’anno della prima promozione in serie A, stagione 1984-85, e fino alla conclusione dell’esperienza di Carlo Mazzone sulla panchina giallorossa, campionato 1990-91, un’estasi collettiva legata alle imprese di undici giovanotti si è impossessata di teste e cuori, non necessariamente appassionate alle vicende calcistiche.

Non si è trattato infatti di un fenomeno prettamente sportivo, per quanto straordinario, ma del momento in cui la popolazione di un territorio abbastanza esteso geograficamente, ma da secoli periferia di tutte le dominazioni storicamente affermatesi, ha preso consapevolezza di non essere una variabile indipendente nel mondo: "Scusa Italia, ma ci siamo anche noi", sembrava l'ipertesto di ogni partita disputata allo stadio di via del Mare davanti a un pubblico ruggente e affamato.

Tra i protagonisti di questa palingenesi Juan Alberto Barbas e Pedro Pablo Pasculli, giocatori argentini individuati dal direttore sportivo Mimmo Cataldo e dal presidente Franco Jurlano per non sfigurare nel campionato più bello del mondo. Il primo proveniva dal Real Saragozza, con la cui maglia, e per due anni consecutivi, aveva conquistato il titolo di miglior calciatore straniero in Spagna, il secondo era tra le stelle dell’Argentinos Juniors e sicuro di un posto con la nazionale, e con Maradona, ai mondiali che si sarebbero disputati in Messico.

Non bastò il loro impegno a evitare la retrocessione in serie B, ma quell’anno il Lecce tolse il disturbo scrivendo una delle pagini più affascinanti del calcio italiano: la vittoria a Roma per 3 a 2 contro lo squadrone di Eriksson lanciato verso lo scudetto. Il clamore di questa mitica partita riecheggia nelle fresche a appassionate pagine de “A sud di Maradona”, scritto da Andrea Ferreri per Edizioni Bepress.

Il libro attraversa la golden age del calcio leccese con un taglio prettamente sudamericano: non solo perché Barbas e Pasculli sono i compagni del viaggio narrativo, ma perché i fatti sportivi sono inseriti in una matrice di cultura popolare lontana anni luce dalle logiche replicanti proprie del calcio moderno.

Sia chiaro, per non cadere nella retorica della nostalgia: anche quello di 30-40 anni fa – e ancor prima - era un mondo pieno di misteri e nefandezze: dagli intrugli “miracolosi” versati nelle borracce alle valigette piene di contante per addomesticare i risultati. E sarebbe un errore contrapporre, secondo uno schema manicheo, il passato puro e glorioso al presente corrotto e mediocre: la storia non si presta alle semplificazioni, ma alle sfumature. Leggere il racconto di Ferreri con questo approccio porterebbe a conclusioni superficiali.

La dote migliore di questo breve volume – che pure contiene aneddoti molto interessanti raccontati con evidente partecipazione emotiva dell’autore – sta nella sua cifra poetica, cioè nelle celebrazione sentimentale di un periodo di emancipazione dalla marginalità che è stata non solo quella del club leccese sul piano sportivo, ma anche di tutti quanti coloro l’hanno vissuto come una finestra che si spalancava sul mondo, con tutte le sue sorprese e gli imprevisti.

A sud di Maradona è insomma un saggio sul riscatto involontario di una coscienza popolare, non elaborata da codici intellettuali e accademici, ma invece assopita dai ritmi meridiani e addomesticata da costumi per certi versi regressivi, tendenti per natura all’autocompiacimento o almeno all’autoassoluzione.

Per questa sua carica intrinseca lo si può collocare anche nella categoria dei romanzi di formazione, non solo dell’autore, ma di una comunità intera. Da leggere e far leggere soprattutto a chi non ha avuto la fortuna di vivere quegli anni.

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