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"Attesa di 7 ore, giornata da incubo al pronto soccorso di Galatina"

Il racconto e le riflessioni del giornalista Nicola Apollonio, direttore da 40 anni della rivista "Espresso Sud". Un controllo al cuore diventa un viaggio in un piccolo inferno, fra disfunzioni e carenza di personale

Doveva trattarsi di un semplice controllo. Un elettrocardiogramma. Forse anche un normale prelievo di sangue, giusto per capire qual era lo stato clinico di quella strana danza alle prime luci dell’alba di un cuore che si era svegliato un po’ agitato.  Nulla di grave, per carità. Però, quando si tratta di sua maestà il cuore è sempre meglio vederci chiaro.

Così, mi metto in macchina e tomo tomo, come avrebbe detto Totò, ma anche con un pizzico di tremarella in corpo, mi avvio verso il più vicino nosocomio, che è quello di Galatina. Alle nove di mattina, ho pensato, mi sbrigo in quattro e quattr’otto. Invece, all’accettazione trovo già un fermento che fa pensare in qualche modo all’accadimento di qualche brutta avventura: ambulanze che vanno e ambulanze che vengono, sguardi smarriti, volti che mostrano tutti i segni della paura, persone in barella che aspettano da un bel po’ un’anima pia che sia disposta a prendersi cura di loro, c’è anche una vecchietta di 86 anni colpita dall’Alzhaimer che urla alla disperata contro un manipolo di fantasmi. E, in tutta questa baraonda, una guardia giurata dal piglio severo, con pistola alla cintola e manette bene in vista, che corre di qua e di là, affannosamente, col solo compito di badare all’apertura e alla chiusura delle porte automatiche.

Mi fanno sedere proprio in mezzo a quelle due porte, una di fronte all’altra, che quando s’aprono (e accade in continuazione) ti sbattono in faccia una ventata d’aria gelida. Stai lì, come inebetito, e osservi distratto (ma in realtà sei assorto nel dedalo dei pensieri per quel tuo muscolo che non mostra di volersi calmare a nessun costo) fin quando non arriva una giovane infermiera con un trabiccolo di finto acciaio su cui è posto uno sfigmomanometro per la misura della pressione arteriosa. Ci siamo, mi dico. E’ segno ch’è arrivato il mio turno. Col “pronto soccorso“ che si anima sempre più e che di “pronto“ non sembra avere proprio nulla. Decine di persone che abbisognano di cure, anche immediate, sono costrette a fare i conti con l’assurda carenza di medici e infermieri. Sembra impossibile che tutta quella gente possa essere assistita - e anche con urgenza! - da un solo dottore e da un paio di infermieri che hanno tutta l’aria di non sapere più dove sbattere la testa. Eppure, in organico sono previsti almeno tre medici, mentre qui c’è soltanto un poverocristo che non trova nemmeno il tempo per scambiare due-parole-due col malcapitato di turno, inghiottito com’è nel vortice delle situazioni più disparate.

Dopo più di un’ora d’attesa, mi fanno stendere su un lettino per il prelievo del sangue. E lì rimango per almeno due ore abbondanti, finché non mi chiamano per un esame radiologico al torace. Già, ma l’esito dell’esame del sangue, quando arriva? Che fine ha fatto? Lo si potrà avere, mi dicono, passate almeno tre ore, quando bisognerà fare un secondo esame, per verificare lo stato degli enzimi cardiaci.

In tutto questo tempo, però, e sono passate quattro ore da quando ho messo piede nella struttura, non mi è stato ancora possibile scambiare due parole col medico di turno. Finché, esausto di attendere una qualche notizia che non arriva, decido di andarlo a cercare. Avrò o no il diritto di sapere cosa mi sta succedendo? “Succede - dice un tantino infastidito - che qui non posso dare ascolto a tutti, sono solo, come vede. Prendetevela con chi ha creato questa situazione di precarietà”. Intende la politica? “Certo che è colpa dei politici, sono loro che decidono tutto, noi facciamo quanto è possibile, purtroppo non siamo ancora attrezzati per i miracoli”. Viso paonazzo e voce alterata. Va al suo angolino di comando, raccoglie qualche foglio su cui non si sa bene cosa ci sia annotato e sparisce. Una scena da patetico attore che alla fine di un turno di sei o sette ore non ha ancora risolto alcunché. Le persone arrivate alle 9 di mattina sono ancora tutte lì, e sono già le 14.

C’è anche quella povera vecchietta in carrozzina consumata dall’Alzhaimer che non riesce a trovare pace, urla e si dispera. Con qualche infermiera senza un briciolo d’umanità che dà segni di palese insofferenza. Mentre un suo collega, in servizio da pochi minuti, dondola di qua e di là alle prese con un raffreddore che non gli dà tregua. Si soffia il naso una, due, tre volte e poi, senza nemmeno lavarsi le mani e senza mai usare i guanti, mi si avvicina armato di siringa per tentare un prelievo dall’arteria all’altezza del polso. Mi rifiuto con fermezza, naturalmente. Ed è poi lui stesso, più tardi, che viene a liberarmi da un ago piantato in vena non so più da quante ore. E lo fa con aria scocciata, però questa volta - l’ho visto! - si è almeno lavato le mani... Solo che di lì a poco avverto una strana sensazione, come se avessi il braccio bagnato non so da che cosa, e scopro di avere la manica della camicia inzuppata di sangue, perché non è stato nemmeno in grado di attaccare un cerotto per bloccare il flusso sanguigno.

Solo alla fine di una giornata da incubo (si sono già fatte le 4 del pomeriggio) arriva una dottoressa dall’espressione un po’ burbera ma con un cuore grande così, capace finalmente di inondare l’aria di quel pizzico di umanità di cui in un luogo dove la gente soffre c’è davvero tanto bisogno. L’aspetto più triste è quello di constatare la freddezza (e anche certa superficialità) con cui vengono trattate le persone in difficoltà di salute. Malasanità? Certo che sì. Ce n’è in abbondanza per prendersela con la politica sanitaria adottata dal governatore pugliese Michele Emiliano e ce n’è in abbondanza - quando diventa necessario - salire immediatamente su uno di quei “treni della speranza” e fuggire al Nord. Perché, in fatto di sanità, la differenza è davvero stratosferica!

* Nicola Apollonio, giornalista, ha fondato e dirige da 40 anni la rivista "Espresso Sud". Abita ad Aradeo.

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