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Gioiello dei mari, poi barca di criminali Sfiorò strage con 200 migranti, demolita

La notte del 29 novembre del 2011 un Baglietto inseguito dalla finanza finì addosso alla scogliera di Torre Minervino. Forse un atto volontario degli scafisti. A bordo centinaia di persone. Il ricordo di quella notte e poi un lungo iter: ci sono voluti due anni e mezzo per arrivare alla demolizione

OTRANTO – Le pale meccaniche hanno polverizzato l’ex principessa dei mari "Isabella VII", diventata un rottame di ferro arrugginito e velenoso amianto, trascinatasi due anni e mezzo addietro fin sulle soglie delle coste salentine con tutto il suo carico di disperazione. Si schiantò addosso alla mastodontica parete rocciosa sormontata dall’antica Torre Minervino.

Era un Fly Bridge in legno di 20 metri, varato dai Cantieri Baglietto ​negli anni ’70 a Varazze, in provincia di Savona. Ed era finito nelle spire della criminalità internazionale dopo interminabili passaggi di mano che nemmeno un’inchiesta dell’Interpol, arrivata a sondare persino in Russia, è stata in grado di tracciare fino in fondo. Un aspetto, questo come molti altri, fino ad oggi inedito.

Cala così per sempre il sipario su uno degli episodi più neri della storia recente degli sbarchi nel Tacco d’Italia. Con la città di Otranto che può tirare un sospiro di sollievo. Una nuova estate è alle porte, malumori e perplessità si sono accavallati nel tempo per quel relitto posteggiato nel molo San Nicola dell’area portuale, in attesa che indagini e iter burocratici facessero il loro corso, e che sparisse una volta per tutte dall’orizzonte visivo. 

Storia di un naufragio al tempo dei moderni "pirati"

Era la notte del 29 novembre del 2011, quando le motovedette del reparto operativo aeronavale della guardia di finanza di Bari e del gruppo aeronavale di Taranto intercettarono l’imbarcazione ad alcune miglia dalla costa, fra Santa Cesarea Terme e Otranto. C’era nebbia, ma il mare era piatto come una tavola, e questo forse impedì la morte dei migranti stipati a bordo. Circa duecento, fra siriani, pakistani, afghani, iracheni, persino palestinesi.

Il Fly Bridge batteva bandiera turca, ma era partito dalla Grecia. A bordo erano ammassati come sardine. Ventisette ore di viaggio, appiccicati uno all’altro, con le gambe accavallate. Alcuni raccontarono ai loro soccorritori, visti come angeli apparire dal nulla nel buio pesto, di aver trascorso l’intera traversata chiusi nel bagno. Un traghetto sfuggito all’inferno in rotta verso il Canale d’Otranto, oltre il quale sperare nella conquista del paradiso.

Non c’è stata e forse non ci sarà mai concordanza su quello che accadde veramente, quando gli scafisti si accorsero di essere finiti nel mirino di uno spiegamento in massa di vedette delle “fiamme gialle”.

Più di qualcuno, a bocce ferme, ha poi sospettato in un naufragio studiato sul momento, una mossa azzardata e volontaria dei moderni "pirati" per creare scompiglio, calamitare l’attenzione verso i dispersi in mare, sperare di confondersi nel caos del momento. Una cosa è certa: intenzionalmente o meno, quella barca andò a collidere sulla solida roccia a picco sul mare e rischiò di provocare una strage e un disastro ambientale.

Si sollevarono un paio di elicotteri, iniziarono le ricerche coordinate dalla Prefettura di Lecce e alle quali parteciparono tutte le forze dell’ordine. I più toccarono terra a nuoto e furono soccorsi direttamente lì. Alcuni furono rintracciati nelle ore successive mentre erano in marcia nell’entroterra. Raccolti in gruppetti, senza una meta precisa.

Diversi i feriti con fratture e contusioni. Un migrante raccontò di essersi salvato per il rotto della cuffia, grazie al proprio fisico esile, passando da un oblò quando ormai aveva l’acqua alla gola. E non in senso figurato.

Fra i primi ad arrivare proprio a ridosso dell’imbarcazione affondata – il che rappresentò un rischio, senz’altro, ma erano in gioco vite umane - vi fu la motovedetta dei carabinieri partita da Otranto, a bordo della quale era stato accolto anche il comandante dell’ufficio circondariale marittimo dell’epoca, il tenente di vascello Francesco Amato. Arrivato sul molo in abiti civili, ritenne che non vi fosse un secondo da attendere.   

IMG-20140527-WA0005-2Il quadro di fronte al quale carabinieri e comandante della guardia costiera si ritrovarono, disastroso. La barca reclinata, con la prua immersa nell’acqua, la poppa sporgente verso l’alto, le eliche che ancora giravano, le luci accese. Quasi un set cinematografico.

Due ragazzi, di 17 e 20 anni, erano quasi al di sotto, stremati e aggrappati a una roccia. Furono portati al “Don Tonino Bello” insieme a tutti gli altri, affidati alle cure dei sanitari.    

Per tutta la notte e nelle ore seguenti, quando ormai il sole si era levato, le vedette della guardia costiera perlustrarono lo specchio d’acqua in cerca di eventuali dispersi.

Non ne sono mai stati trovati, né mai nessuno fra i migranti salvati ha rivendicato l’assenza di un parente, un amico, un conoscente, o sono arrivati appelli di famiglie da altre nazioni per un nome mancante. Il mare stesso non ha restituito negli ultimi anni corpi riconducibili a quel naufragio. Ma la certezza assoluta che nessuno ci abbia davvero lasciato la pelle forse non ci sarà mai.

Smaltita la notte adrenalinica, c’era da risolvere un altro problema: recuperare la barca. Per due giorni di fila fu monitorata dalla guardia costiera di Otranto, fin quando non arrivò il rimorchiatore Castalia, messo a disposizione dal ministero dell’Ambiente. Il 1° dicembre fu agganciata e condotta verso la banchina della Città dei Martiri.

Nel frattempo, grazie a preziose testimonianze dei superstiti, furono identificate sette persone sospettate di essere i traghettatori. Di queste, dopo una serrata indagine, due finirono in arresto: gli unici individui per i quali, incrociando le dichiarazioni, non erano sorti dubbi circa l’effettivo ruolo a bordo.

La demolizione nel porto di Otranto

(Guarda il video)

Poi, come per tante altre storie divorate dall'incedere frenetico della cronaca, con il suo inseguirsi infinito di nuovi fatti che seppelliscono quelli precedenti, anche su quella vicenda è calato un velo. Di certo, quella barca non poteva essere spostata. Ormai del tutto fatiscente, per ordine della Procura doveva essere demolita in loco. 

Questa mattina, finalmente, sotto gli occhi dei militari dell’ufficio circondariale marittimo idruntino, comandanti oggi dal tenente di vascello Gianmarco Miriello, e del personale dello Spesal dell'Asl Lecce - Area Sud Maglie (presenti il dirigente Achille Abate e il tecnico di prevenzione Raffaele Crisostomo), le pale meccaniche hanno scritto la parola fine a un film durato due anni e mezzo.

Quello che non è noto ai più, infatti, è il difficile iter per arrivare al momento della demolizione. E pensare che, ristrutturandolo, più di qualche possidente avrebbe volentieri incamerato fra le sue proprietà quel Baglietto che sicuramente avrà visto tempi più gloriosi. Le offerte, secondo indiscrezioni, non sarebbero mancate, ma era impossibile vendere un bene frutto di proventi illeciti. E poi restava sempre il problema del trasporto: impossibile, in quelle condizioni. 

Smaltiti l’amianto, gli idrocarburi e tutte le altre parti altamente inquinanti (operazione lunga e complessa), conclusa l’indagine giudiziaria, il problema principale sembra sia stato in seguito arrivare alla distruzione della barca con un contenimento dei costi che oggi più che mai anche l’amministrazione pubblica ritiene necessario, dovendo quella spesa gravare sulle tasche del contribuente. Se n'è occupata la Eco servizi ambientali di Lequile, dopo rinuncia di altre due imprese. 

A quel passo, dopo tante vicissitudini, si è quindi finalmente arrivati. Le ruspe hanno cancellato per sempre il natante, ma non il ricordo di una notte che solo per puro miracolo non ha fatto segnare una delle più grandi tragedie in mare degli ultimi decenni nel Salento.   

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