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Domenica, 28 Aprile 2024
L'intervista / Andrano

Antoci: “Salento, terra che crede alla lotta contro la mafia. Messina Denaro? Vince lo Stato”

L’ex presidente del parco dei Nebrodi, sfuggito a un agguato mafioso e oggi sotto protezione speciale per le nuove minacce ricevute, nel Leccese per alcuni incontri: “La mafia si combatte con la cultura della legalità”

ANDRANO – Con il suo impegno da presidente del Parco dei Nebrodi ha combattuto la mafia dei terreni, colpendo la criminalità organizzata nella sua economia, ispirando e dando il proprio nome a un protocollo, diventato poi legge dello Stato, che ha smantellato il sistema delle truffe sui fondi europei con cui le associazioni a delinquere alimentavano i propri traffici e si arricchivano.

L’impegno per la legalità è una costante nell’esistenza di Giuseppe Antoci e prosegue inarrestabile, nonostante la sua vita sia inevitabilmente segnata da quell’attentato del maggio 2016, a cui è scampato insieme agli uomini della propria scorta, e nonostante il sistema di protezione elevato a cui, assieme alla sua famiglia, è tuttora sottoposto, proprio perché ancora nel mirino dei boss. È notizia di circa un mese fa, infatti, che dal carcere, le “attenzioni” nei suoi confronti non sono svanite, con un indagato appartenente al clan dei Batanesi che avrebbe rivelato l’intenzione di alcuni suoi parenti in carcere, di uccidere l’ex presidente del parco dei Nebrodi, una volta scontata la pena.

In questi giorni, Antoci è in giro nel Salento, per alcuni incontri sul tema della legalità organizzati dalla Casa delle Agricolture Tullia e Gino di Castiglione d’Otranto e nell’ambito del progetto “È fatto giorno”, sostenuto dall’avviso pubblico “Bellezza e legalità per una Puglia libera dalle mafie”. Lo abbiamo intervistato per parlare dell’iniziativa e della lotta alla mafia.

Dottor Antoci, torna nel Salento per una serie di appuntamenti inseriti all’interno di questo progetto di antimafia sociale promosso dalla Casa delle Agricolture. Che idea si è fatto di questa esperienza?

“Si tratta di un’iniziativa bellissima perché è valoriale con il rimando a questi semi che, alla fine statisticamente, fanno germogliare qualcosa, creano piante e forti radici. L’immagine dei semi mi sembra la premessa di un’antimafia sociale che porta frutto: è un’esperienza che va partecipata e a cui va dato merito”

Che rapporto vive con questo territorio?

“Col Salento ho un rapporto datato. Sono cittadino onorario di Melpignano dal 2018 ed è un posto fantastico con tanta bella gente che crede alla lotta alla mafia: questo è un segnale positivo e qui trovo un terreno fertile per questo tema”.

Il tema della legalità è decisivo nelle sorti di un Paese ma spesso rischia di trasformarsi in una specie di feticcio da venerare ma non da osservare. Esiste e si può evitare questa incongruenza?

“Fondamentale è la differenza tra prediche e pratiche: la lotta alla mafia si fa con dovere di cittadinanza e nella consapevolezza che il miglior testo antimafia è la Costituzione. Per questo è importante il confronto con le scuole e con migliaia di studenti: è l’essenza stessa della lotta alla cultura mafiosa che si abbatte ripartendo dai ragazzi e dalle ragazze. Questa idea deve travalicare gli spazi e diventare patrimonio del vissuto istituzionale e del tessuto culturale dei luoghi, senza pensare che esistano territori esentati dalle infiltrazioni mafiose. Il negazionismo è ciò di cui si nutrono le mafie. Noi adulti, d’altra parte, dobbiamo dimostrare credibilità alle giovani generazioni su questo terreno perché, come diceva Rosario Livatino ci sarà chiesto non se siamo stati credenti ma credibili”

Ieri sarebbe stato il compleanno di Paolo Borsellino, ma l’attualità vede una grande attenzione mediatica per l’arresto del boss Messina Denaro. In tanti, tra gli studenti, glielo avranno chiesto: come è riuscito un boss così pericoloso a latitare per trent’anni restando operativo nel proprio territorio di origine?

“È la storia delle latitanze nel nostro Paese. I boss vivono lì perché il loro sistema di protezione funziona in quel contesto, in quei luoghi, dove c’è la paura, dove ci sono le connivenze. La prova provata che Messina Denaro fosse ancora un capo in attività è che si sentiva protetto e che fosse convinto che il suo sistema di protezione fosse ancora forte, altrimenti non sarebbe andato in una clinica a Palermo. La verità è che ha continuato a pensare che quello che è accaduto in questi trent’anni potesse andare avanti”.

Cosa ha scardinato allora quel sistema di protezione?

“È stata fatta un’attività investigativa di grandissimo rilievo: certamente la situazione personale del boss ha aiutato, perché è stato costretto a farsi curare e a lasciare tracce. Attenzione, però, a vederlo come un capo in declino. L’unica cosa che mi sento di dire è: evviva! Finalmente è stata ridata speranza e dignità ad un Paese che non poteva permettersi di tenere questo signore ancora latitante. C’è poi, a proposito, un aneddoto: Carmine Alfieri, capo della camorra, anche lui arrestato nel suo territorio di riferimento, venne preso da un giovane capitano dei carabinieri che comandava il nucleo operativo provinciale di Napoli, Pasquale Angelosanto, che oggi è il comandante nazionale del Ros e che coi suoi uomini ha arrestato Matteo Messina Denaro”.

Ha la percezione che un certo racconto del mondo criminale, quasi agiografico, mitizzato, sia ancora presente e continui ad essere un danno per la lotta alla criminalità?

“È chiaro che se non si sta attenti, in questi casi, si creano i miti soprattutto nei ragazzi. È un po’ quello che hanno creato alcune serie televisive, con ragazzi che vedevamo giocare a fare i boss”

La criminalità esercita ancora un fascino mediatico sulla gente? Come si combatte?

“Purtroppo sì e si combatte soprattutto nelle scuole, incontrando i ragazzi e raccontando chi sono loro e chi siamo noi. Bisogna attivare il valore della scelta: ma per fare una scelta bisogna capire chi c’è da un lato e chi dall’altro. Bisogna far capire che dall’altro lato ci sono questi efferati criminali che hanno ucciso servitori dello Stato, donne e bambini, e convincere a stare lontano da loro e da chi ha una cultura mafiosa. Sul tema della legalità, mi sento di dire che la scuola italiana ha fatto e sta facendo tanto: è stata un pilastro anche quando sembrava che il Paese arretrasse su queste tematiche”.

Il suo protocollo ha stanato il business delle consorterie criminali e diventando una legge nazionale, nel suo lavoro è stato riconosciuto un modello. Ma ha anche dovuto fare i conti con un tentativo di “mascariamento”, ovvero la delegittimazione, passata anche attraverso la vicenda della commissione antimafia della regione Sicilia. Come ha vissuto quella storia?

“Distinguo sempre: lo Stato, nelle persone del presidente Mattarella, della magistratura, delle forze dell’ordine le ho avute sempre vicine a me. Quest’opera di delegittimazione nei miei confronti è stata di pochi e, tra l’altro, qualche giorno fa sono arrivate le scuse dalla nuova commissione regionale. Il mascariamento è stato utilizzato con Falcone, Pio La Torre, impastato, Borsellino, Santi Mattarella. L’unica diversità questa volta è chi c’ha provato è stato subito messo all’angolo e colpito dalla magistratura. È un fatto storico, nuovo”. 

Lei è un testimone di legalità con la sua vicenda personale, da presidente del Parco dei Nebrodi, e quell’agguato a cui è sopravvissuto nel 2016. Immagino che sia inevitabile pensare costantemente a quell’episodio, ma cosa la spinge ad andare avanti nella sua battaglia?

“È chiaro ed evidente che io non potrò più essere la stessa persona che ero fine a prima dell’attentato. Non lo sarò più io, né gli uomini della mia scorta, né le nostre famiglie, e forse neanche questo Paese che si stava svegliando con un’altra strage di mafia. Non è facile vivere una vita con la casa presidiata dall’esercito, le figlie sotto protezione, anche a seguito degli ultimi sentimenti, per così dire, di affetto che arrivano dal 41 bis, nei miei confronti. La situazione è molto complicata, ma nella misura in cui non si fa i conti con una parola, utilizzata 23 volte dal presidente Mattarella nel discorso di insediamento del secondo mandato, la dignità”.

Cosa intende?

“Che ho una chiara idea di cosa significhi morire: si può morire in un attentato di mafia, come stava accadendo a me e agli uomini della mia scorta, con le ricorrenze, le lapidi, il ricordo, però, lì sei morto una volta per sempre. Poi c’è un altro modo per morire: che è alzarsi la mattina, guardarsi allo specchio e sentirsi sporchi, sentire la certezza di non poter passare nell’altra stanza, incrociare le tue figlie, dire loro che la vita va vissuta con rettitudine, con dignità, con onestà, senza abbassare lo sguardo: quello specchio ti uccide ogni giorno e muori ogni giorno. Io vado avanti per quello specchio, per quella parola e per tutte quelle migliaia di studenti che incontro tra scuola e università, per un Paese che sulla lotta alla mafia c’è, ma deve solo fare squadra: noi, persone perbene siamo tanti, più di loro. Dobbiamo tornare alla normalità: questo Paese di simboli e di eroi ne ha avuti abbastanza, e anche se ha la miglior normativa antimafia del mondo, la Costituzione e il dovere di cittadinanza restano strumenti da cui non possiamo sentirci esentati e i migliri strumenti per combattere le mafie”.

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