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Martedì, 30 Aprile 2024
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Intervista a Gian Marco Griffi, autore del romanzo monumentale Ferrovie del Messico

A più di un anno dall’uscita, dopo infinite presentazioni in giro per l’Italia, Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi resta il caso letterario del 2023

Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi (Laurana editore) racconta il periodo storico della Repubblica di Salò (1943/45) e il protagonista Cesco Magetti rispecchia la confusione del mondo che lo circonda. Magetti è un militare della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria di Asti e riceve un ordine strampalato: disegnare la mappa delle Ferrovie del Messico, cosa che permette all’autore di farlo vagabondare per le strade di Asti e per le colline che circondano la città alla ricerca di Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México di Gustavo Adolfo Baz con illustrazioni di Eduardo Gallo, un libro che può aiutarlo ad assolvere il compito. Ed ecco allora che Cesco Magetti, nella sua prima tappa per procacciarsi informazioni utili a perseguire il suo scopo, entra nella biblioteca civica di Asti dove incontra Tilde, una giovane e bellissima bibliotecaria, e se ne innamora perdutamente.

Magetti deve però affrontare la sua avventura menomato da un terribile mal di denti a cui si aggiunge un’enorme fobia per i dentisti. Un male di vivere che Cesco combatte principalmente fuggendo (dalla sua adesione al fascismo, dalla sua vita monotona, dal fantasma di un suo imperdonabile sbaglio, dalla sua fidanzata emigrata, dai dentisti), almeno fino al momento in cui l’avventura lo porterà a prendere una direzione precisa nel sentiero dei bivi che si biforcano della sua vita, e nulla sarà più come prima.

A pagina 292 del romanzo lei dice La vita è un bruciare di domande, allora partirei subito con la prima: il protagonista Cesco Magetti è un militare della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria di Asti che riceve un ordine strampalato: disegnare la mappa delle Ferrovie del Messico per scoprire dove si nasconde un’arma diabolica e terrificante, l’arma risolutiva. Perché tra tutte le ferrovie possibili ha scelto proprio quelle del Messico?

Perché un giorno stavo leggendo una biografia di Marcel Proust e al capitolo “Proust e i soldi” scoprii che Proust era un appassionato investitore in borsa, e tra i titoli azionari sui quali preferiva investire c’erano diversi titoli esotici, come Miniere d’oro australiane, Ferrovie del Tanganica, Buenos Aires Tram, Light & Power e, appunto, Ferrovie del Messico. Ricordo che rimasi folgorato: quel titolo (azionario) mi suscitava già soltanto dal nome un romanzo d’avventura; avevo già alcune idee, alcuni personaggi, ma il titolo mi ha fornito il presupposto che cercavo, il vero spunto a partire dal quale ho costruito tutto il resto. Non restava che farsi una domanda: che cosa so del Messico? La risposta è stata “quasi niente”. Insomma sapevo le cose che sanno tutti, dai sombreri ai mariachi, da Besamemucho a Pancho Villa, il giorno dei morti eccetera. Però riflettendoci meglio ricordai Juan Rulfo, autore messicano straordinario (anche se scrisse due soli libri di narrativa: i racconti della Pianura in fiamme e il romanzo breve Pedro Paramo), e Malcolm Lowry, autore di Sotto il vulcano, uno dei romanzi formativi per me, oltre a Bolaño, che in Messico aveva vissuto e ci aveva ambientato molti racconti (e parte dei romanzi). Quindi mi sono costruito un Messico mentale, trasfigurato mescolando tutto quello che sapevo e tutto quello che non sapevo ma immaginavo, del resto volevo che il Messico rappresentasse un luogo altro rispetto ad Asti, volevo che conservasse le caratteristiche di mistero ed esoticità che erano necessarie a quanto mi ero prefissato. Doveva essere un posto lontano, avvolto in un’aura magica stregonesca, dell’arcano, in modo che potesse riprodurre la cornice ideale per inserire la mia città oscura e immaginaria, quella Santa Brígida de la Ciénaga che è un po’ la raffigurazione del locus terribilis/horridus, il luogo tenebroso di perdizione in contrapposizione a un locus amoenus, un paradiso terrestre utopistico, che però nella mia concezione del mondo non esiste (più).

Cesco Magetti è perseguitato dal mal di denti e ha la fobia del dentista, come molti di noi credo. Aveva nozioni di Dentosofia? Michel Montaud definisce Dentosofia il percorso di crescita, che accompagnato e guidato da un terapeuta, mette in evidenza il legame tra l’equilibrio della bocca, l’equilibrio dell’essere umano e, in senso più ampio, l’equilibrio del mondo. Perché di tutti i malesseri che potevano raccontare lo spleene l’incapacità di affrontare i problemi che Magetti deve, non riuscendoci, perché proprio il mal di denti?

Dicono che il mal di denti sia uno tra i dolori più acuti che un uomo possa sopportare. È un male comune a tutti, chiunque ha provato almeno una volta nella vita qualcosa di simile al mal di denti, è dunque universale, immediato, e porta con sé tutta una serie di paure, fobie, implicazioni, tra dentisti e medicine, tra aspetto esteriore e aspetto interiore; perciò era perfetto per fungere da correlativo oggettivo del mal di vivere di Cesco, proprio come i cocci aguzzi di bottiglia in cima alla muraglia in Meriggiare pallido e assorto di Montale, era il male fisico perfetto per rendere quello che volevo rendere. E poi il mal di denti ha in sé tutte le caratteristiche per reggere la scena anche senza richiami ulteriori.

Durante la scrittura del romanzo, mentre mi documentavo su svariate questioni odontoiatriche, mi sono imbattuto anche nella dentosofia, mi è sembrata una questione interessante da approfondire, anche se poi non l’ho davvero fatto. Mi riservo di farlo in futuro.

Sicuramente oltre a Cesco, tra i personaggi spicca Tilde la bibliotecaria di cui s’innamora, il suo opposto (lei è una ribelle e quella ribellione le costa molto cara), loro due sono i pianeti narrativi attorno cui ruotano une serie di personaggi satellite: su tutti di due vorrei chiedere qualcosa. Il primo è Epa, cartografo samoano che vive ad Asti che fa già ridere di suo, come nasce un personaggio così singolare? E l’altro me lo segnala Flavio Malaspina, un lettore forte milanese, suo grande estimatore, che chiede: Come nasce la figura di Edmondo Bo, “frenatore poeta, o poeta frenatore, o frenatore poeta, in ogni caso alcolista e oppiomane”?

Epa nasce da un vero samoano che un giorno si presentò da me al circolo di golf per chiedere un lavoro. Per un po’ in effetti al circolo lavorò. Un giorno, leggendo qualcosa sulle Samoa, scoprii che un tempo erano tedesche. Quindi non era così impossibile che un samoano potesse finire in Italia anche negli anni ‘20/’30. Mi pareva bello che la figura del cartografo potesse essere affidata a un tipo come Epa, e mi piaceva l’idea di raccontare la storia del suo arrivo in Piemonte, la storia della sua amicizia silenziosa con un ubriacone locale.

Edmondo Bo nasce invece dalla mia grande passione per la poesia, e dalla volontà di creare un poeta in potenza ma non in atto, un ferroviere (precisamente un frenatore, ovvero quei ferrovieri che stavano in una garitta nell’ultimo vagone del treno e avevano il compito di frenarlo in curva, o in discesa: si trovavano a lavorare in condizioni disagiate o estreme - per esempio a temperature estremamente basse - e finiva che per sopperire a queste difficoltà bevessero a tutto spiano; io ho immaginato che oltre a ubriacarsi scrivessero poesie futuriste e antitutto, e che avessero fondato una corrente letteraria la quale, anziché celebrare le velocità estreme del futurismo,avrebbe celebratole decelerate nelle paludi del presente) grande appassionato di poesia che vorrebbe essere un poeta ma ha una teoria stramba, la quale prevede che soltanto i poeti suicidi possano essere considerati poeti. Questo comporta per lui un dilemma irrisolvibile: da una parte ha un amore viscerale per la vita, la ama profondamente, ogni brandello del suo corpo è un inno alla voglia di vivere, dall’altra la sua stramba teoria gli impedisce di definirsi poeta se non si suicida, e dunque il dilemma è: vivere senza essere poeti o morire per diventare poeti? Siamo ovviamente nel campo del grottesco.

Lei parla di fiori, piante, di uccelli e del loro canto (scelta molto interessante!) spesso cita odori, cosa che rende il romanzo 4D. Perché la natura è così presente nel suo romanzo?

Perché siamo circondati da fiori, piante, uccelli e siamo immersi nel loro canto, il mondo è principalmente un mondo di odori, colori, sapori, canti d’uccelli, tutte cose cui spesso non prestiamo attenzione, ma che sono parte integrante della nostra vita. L’ambiente esterno, il paesaggio, è modellato dall’uomo ma a sua volta contribuisce a modellare l’uomo e a renderlo ciò che è. Io volevo che il paesaggio – l’ambiente, la città e le colline – fosse un protagonista del romanzo, non semplicemente uno sfondo, pertanto avevo la necessità di creare un ambiente linguistico, in primis (è la cosa che mi interessa di più), e poi, naturalmente, anche un ambiente socio-culturale, e infine un ambiente esterno, un paesaggio appunto, che fosse il più intricato e materiale possibile.

Il linguaggio è il vero protagonista del libro. Alessandro Barbero lo definisce versatile e mutevole, spesso apparentemente orale ma in realtà letteratissima, che attinge a tutte le risorse dell’italiano, delle parlate regionali, dei linguaggi specialistici, e financo a gerghi furfanteschi e fantastici.La sua lingua lascia semi e ferite che continuano a sedimentare nel tempo, è un’arma potentissima che testimonia un tempo complesso e difficile in modo originale, cioè parlare di orrore con una leggerezza che non è superficialità. La sua narrazione regala una scrittura entro la quale può farsi spazio un colloquio attento con il presente, un colloquio sostenibile pensando al futuro, perché la parola, il logos parte dal passato e può essere implicito consiglio, esempio in atto di un’attenzione alla Storia più buia di questo paese. Perché ha scelto di far coesistere tutti questi linguaggi e gerghi?

Innanzitutto perché ho scelto di raccontare una storia (o forse tante storie che si intrecciano a una storia) da più punti di vista diversi, e dunque mi serviva non soltanto che il linguaggio si adattasse ai personaggi, alle atmosfere, ai temi del romanzo, ma che li determinasse. Una scelta linguistica, di registro, di ritmo, restituisce meglio di mille descrizioni una situazione, una persona, un ambiente. E naturalmente lo stesso si può dire del significato che si vuole comunicare: più il linguaggio è stratificato, più la storia assume gradi di interpretazione e senso; più è precisa la lingua, più la narrazione riesce a sviluppare ciò che l’autore vuole portare in scena con quella determinata parola, con quel determinato linguaggio o codice linguistico; la lingua di Cesco, per esempio, è più semplice e ingenua quando è in “presa diretta”, cioè quando Cesco scrive sulle pagine del quaderno che finirà nella capsula del tempo; quello è un Cesco Magetti di ventitré anni, che scrive con una lingua goffa e impacciata, semplice e ingenua. Al contrario la lingua di Cesco quando Cesco è narratore della storia (ovvero quando è lui a narrare parti del romanzo) è la lingua di una persona che sta raccontando una storia dal futuro, quando Cesco ha vissuto tutta la sua vita e ha una proprietà linguistica del tutto diversa, molto più matura, molto più consapevole, frutto delle traversie e dei viaggi che ne hanno contraddistinto la vita, ma anche per esempio delle letture fatte(io queste cose le so perché Ferrovie del Messico era pensato fin dall’inizio per essere scritto in tre parti, e so, perché pur non avendolo scritto l’ho immaginato, quale sarà la sorte di Cesco Magetti nelle due parti successive – ovvero una serie di peripezie e viaggi e trasferimenti in varie località del mondo per poi tornare a casa, un nostos che non è un ritorno a una casa o a una patria fisiche, geografiche, quanto un nostos alla lingua madre, che è l’unica vera patria). E poi la lingua raffigura il disordine del mondo, lo imprigiona e lo restituisce al lettore tentando di ordinarlo disordinandolo ancor più: talvolta riesce a dipanare il gomitolaccio della realtà, altre volte contribuisce a intricarlo ancor più. E poi delle volte genera un’esplosione che coinvolge (o meglio: stravolge) tutti i pezzi del mosaico-mondo, i quali sembrano sprizzare via all’impazzata, e dopo aver generato un simile caos azzarda una ricostruzione del mosaico-mondo però del tutto trasfigurato dalla sensibilità e dallo sguardo di chi racconta la storia (servendosi della propria lingua).

Da traduttrice letteraria immagino sia stata una bella sfida per Christophe Mileschi tradurlo in francese per Gallimard; per il tedesco sarei curiosa di guardare il suo traduttore o la tua traduttrice confrontarsi con il suo idioletto che stratifica più lingue e soprattutto dice cose scomode sui tedeschi. Ha mai pensato a questo aspetto?

Ho conosciuto Christophe, abbiamo trascorso una giornata insieme, e dalle mille domande che mi ha posto, ma soprattutto dalle tante soluzioni che ha prospettato, sono sicuro che la traduzione francese sarà di grandissima qualità. Del resto tradurre un romanzo come Ferrovie del Messico significa inesorabilmente riscriverlo, proprio per tutto quel che si diceva a proposito del linguaggio. Invece non ho (ancora) conosciuto il traduttore o la traduttrice in tedesco. Le cose scomode non sono sui tedeschi, ma sui militari tedeschi nella seconda guerra mondiale, perciò sono sicuro che saranno accolte benissimo dai tedeschi. 

Dopo più di un anno di presentazioni che continua a fare quotidianamente, in che modo il lettorato ha completato la sua opera? Voglio dire cos’è che ha potuto imparare sul libro attraverso gli occhi di chi lo ha letto?

Moltissime cose. Per esempio, al di là delle domande ricorrenti, che ovviamente ci stanno, ho notato che ogni presentazione è diversa da quella precedente, ognuno fornisce una lettura delle Ferrovie che si focalizza su qualcosa di diverso, dà una visione della storia da un’angolatura sempre un po’ diversa, e questo basta per permettere di analizzare sempre nuove cose della mia scrittura e dei temi del romanzo, siano temi antimilitaristi o antifascisti, siano temi dell’amore o dell’epica tragicomica, temi fantastici o fantascientifici, storici o ucronici, e davvero tanto altro.

Molti lettori dicono che a fine lettura il romanzo lascia un senso di solitudine, ci si sente abbandonati. Cito un altro lettore che si chiama Vinicio De Vito: “Speriamo scriva dell’altro quest’uomo prodigioso”. Quanto dobbiamo attendere per il prossimo romanzo di Gian Marco Griffi?

Prima devo trovare qualcosa che valga la pena di essere raccontato, poi devo trovare il tempo di mettermi lì e scriverlo: spero che succeda molto presto. Ma io sono uno scrittore per passione, la scrittura per me è un passatempo: non funziona che mi siedo alla scrivania e mi costringo a scrivere. Nel mio caso il motto alfieriano volli sempre volli fortissimamente volli, legato a una sedia, non produrrebbe altro che qualcosa di insoddisfacente. Prima o poi mi tornerà la voglia di scrivere un’altra storia (se parliamo di un romanzo, perché in realtà ho scritto diversi racconti dopo Ferrovie del Messico) e non vedo l’ora, giacché per me non c’è niente di più bello, divertente, totalizzante e vitale che scrivere una storia.

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