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Lunedì, 29 Aprile 2024
L'editoriale

La bellezza perduta: una terra che annaspa fra prepotenza, improvvisazione e crimine

Si è chiuso un 2023 non esaltante, anche perché il riverbero dei conflitti che alza il costo della vita arriva a intaccare la capacità di resistenza di un Salento già disomogeneo nella crescita, come tutto il Mezzogiorno, e in cui la malavita continua a esercitare fascino

Aneddoto.

Sera del 18 dicembre, Lecce, via XXV Luglio. All’altezza della Prefettura, con prorompente uscita dalla curva, si materializza alle mie spalle un suv bianco. L’astroauto del nuovo millennio, di quelle che ormai sfrecciano con disinvoltura su ogni strada, muovendosi come farebbe l’Enterprise fra enormi spazi interplanetari anche se si trovano in borghi delle dimensioni di Puffilandia, quasi s’incolla al paraurti posteriore della mia Punto.

Ci separano lamiere, cristalli e asfalto, la figura alla guida, nella penombra, è indistinta. Impossibile notare moti del volto. Eppure, percepisco il suo disprezzo, sento che desidererebbe la disintegrazione immediata della mia auto e di tutte le altre di quella fetta di Lecce che in quel momento mi precedono, viaggiando in ordinata fila indiana.

All’altezza dell’incrocio semaforico con via Trinchese, la già scarsa pazienza del conducente deve essere ormai tracimata dal vaso. Così, con uno scarto di lato (senza freccia, è chiaro, avvisare significherebbe uscire fuori dal personaggio), si pianta sulla destra, invadendo la corsia preferenziale. Sorpassa con una ripresa da formula uno me, l’auto davanti alla mia e sta per far mangiare la polvere anche alla terza, quando all’altezza del Castello di Carlo V accade l’impensabile.

Ho la visuale coperta, per cui solo all’ultimo istante mi accorgo che un poliziotto, con scatto da centometrista, a rischio di finire pure travolto, ha appena attraversato per intero la via pur di bloccarlo, sventolandogli quasi con irritazione una paletta davanti al parabrezza. Passo ed esulto manco avesse segnato il Lecce, con il pollice faccio “ok” all’altro agente, fermo accanto alla volante, nello slargo del Castello dov’è stato allestito un posto di controllo, e grido: “Bravi”.

Non voglio male a nessuno. Mi auguro che quell’uomo non avesse nulla da nascondere e che tutto si sia concluso con qualche (sacrosanto) verbale. Ma la vicenda è tutt’altro che banale. Ci racconta molto di noi, di quello che stiamo diventando. Il colpo di scena finale, solo un fuoriprogramma rispetto a comportamenti ormai ad ampia diffusione. Sintomi di una società che sta andando alla deriva a bordo di una zattera colma di prepotenza e aggressività. Una regola a cui non sfuggono nemmeno comunità medio-piccole dove la vita dovrebbe scorrere con più serenità e meno frenesia.

Dovrebbe. Appunto.

Dal Covid alle guerre

Come siamo arrivati a questo, perché la linea di confine del rispetto reciproco viene valicata sempre più spesso? Perché ci stiamo inaridendo?

Durante il Covid era tutto uno sventolio di vessilli e un appiccicar di cartelloni sui balconi: “Andrà tutto bene”. Nei silenzi irreali delle città blindate dal coprifuoco, ci eravamo autoconvinti che ne saremmo usciti più forti e migliori. Ma poi la fase acuta della pandemia è finita e ci siamo risvegliati in un mondo più povero e più incazzato. Ai conflitti dimenticati di terre lontane, si sono aggiunti quelli quasi alle porte di casa, prima in Ucraina, ora in Israele. E dalla Cina, che non vuol farsi mancare nulla, giungono proprio in queste ore segnali inquietanti riguardanti Taiwan. Sorvoliamo sulle nevrosi di quel tizio nordcoreano.  

Papa Francesco, da tempi non sospetti, la chiama “terza guerra mondiale a pezzi”. E sembra che i pezzi stiano per aumentare. Così, ci siamo lasciati dietro un 2023 non esaltante e stiamo inaugurando il nuovo anno non proprio nel migliore dei modi. Non ci fossero stati di mezzo migliaia di lutti e dolore, verrebbero quasi da rimpiangere i lunghi silenzi della pandemia, rispetto allo stridore delle sirene che annuncia il boato delle bombe.

Qualcuno obietterà: sì, va bene, ma cosa c’entra tutto questo con il Salento? C’entra, in qualche modo. Perché in un mondo globalizzato ogni macro evento che si verifica in qualche suo angolo, si irradia fra arterie, vene e capillari, fino a raggiungere anche le periferie delle periferie. Aumentano i prezzi, si alza il costo della vita e il Salento, che come tutte le terre del Mezzogiorno vive di contraddizioni, sempre in oscillazione fra le sue aspirazioni economiche basate più che altro sullo slancio del turismo e la consapevolezza di una povertà di mezzi e di mentalità ancora diffusa con cui fare i conti, finisce per risentirne. E molto.

Non nascondiamoci, è così

Tempo addietro fui intervistato per un documentario su Lecce nell’ambito della trasmissione (molto ben curata) Di là dal fiume e tra gli alberi, in onda su Rai 5 e in replica su Rai 3. Parlai per oltre un’ora, forse anche più, ma purtroppo, per ragioni di spazio (non ero ovviamente l’unico leccese ascoltato dal regista, Luigi Maria Perotti), alcune dichiarazioni furono tagliate. Peccato, perché mi soffermai, peraltro, proprio su un aspetto al quale tengo molto, la difficoltà di questa terra a fare sistema. Non sempre l’offerta turistica è degna della bellezza del suo mare, della dolcezza delle aree rurali, del fascino ammaliante del barocco. Denunciai così la diffusa improvvisazione che finisce per allontanare i visitatori, non di rado vessati da prezzi salati rispetto alla bassa qualità dei servizi. “Grazie di tutto, ma qui non tornerò più”, sbottano molti vacanzieri.

È chiaro, non mancano esempi virtuosi d’imprenditorialità, fra pionieri con radici ben piantate ed emergenti forti di idee e capacità innovativa. Ma in un quadro disomogeneo, la criminalità continua a esercitare il suo fascino perverso su ampie sacche di popolazione locale, trovando sponda nell’insufficienza di basi solide sulle quali un cittadino, specie un giovane, possa creare l’intelaiatura di una vita.

Ad alcune intramontabili figure di spicco del panorama salentino, si aggiungono quasi ogni giorno nuove leve che rimpolpano agguerriti eserciti adusi al ricambio continuo, ragion per cui, in manette uno, subito arriva il rincalzo. Molti sono stregati dai ricavi che si possono fare con gli stupefacenti e dietro c’è una visione di società depauperata di valori. Lo vedi a volte sbirciando sui profili social, dopo qualche arresto: esibizione spesso al limite dello sbruffone di auto, moto, gioielli, abiti costosi, per vite molto al di sopra delle proprie possibilità.

Un’altra fetta, invece, è composta da disperati, magari pieni di debiti, senza un’occupazione, e con una visione piatta dell’orizzonte, immerso in una notte eterna dalla quale non si leverà mai l’alba del futuro. Così, nell’anno appena trascorso è stato tutto un pullulare di “corrieri” e pusher di qualunque sostanza stupefacente, con preoccupante ricorrenza di cocaina ed eroina a chili, tra fermi in flagranza e corposi blitz a chiusura di indagini che andavano avanti da tempo.

Inseguimento dell’effimero e scarsità di opportunità sono facce della stessa medaglia. E ci parlano di un Salento che continua ad annaspare.

E arrivano le elezioni, ma…

Intanto, uno schiocco di dita e saremo già a giugno, l’ora delle urne. Gli occhi saranno puntati soprattutto su Lecce dove, dopo sei anni e mezzo, è fisiologico che il rapporto fra Carlo Salvemini e parte della città abbia subito qualche logoramento.  Ma è normale perché, a dirla con la stessa onestà intellettuale di chi pure l’ha sfidato alle primarie, il consigliere comunale Pierpaolo Patti, “chi governa non viene premiato”.

Sta di fatto che non tutti hanno compreso determinate scelte, molte delle quali in tema di viabilità, che per il sindaco rientrano in una visione a più ampio raggio di città e i cui risvolti dovrebbero vedersi da qui a qualche anno. E frizioni (edulcorate, usando l’espressione “dialettica”) sono sorte all’interno della stessa maggioranza, parte della quale lamenta scarso coinvolgimento nei processi decisionali. Ma alla fine le primarie hanno rispettato i pronostici, riconfermando la candidatura di Salvemini. Riuscirà, ora, a superare anche lo scoglio delle elezioni e riconfermarsi?

Nel momento storico in cui vi sarebbe lo spazio per un rilancio, in controtendenza rispetto al resto d’Italia, il centrodestra leccese sembra barcollare fra immobilismo e frazionamento. L’anno si è chiuso senza una designazione certa e quel che resta della coalizione rischia di arrivare all’appuntamento con un programma sfilacciato. Così, a fare opposizione, ma in modo estemporaneo e dettato magari dalla rabbia del momento per qualche scelta, sembrano di più i singoli cittadini sui social. Non certo il modo corretto di fare attivismo, come ha sostanzialmente ricordato anche il presidente Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno, rimarcando come il vero nemico della democrazia resti l’astensionismo.

Nel Salento, come altrove, il leitmotiv non cambia. Si contestano scelte politiche e amministrative, a volte solo per partito preso e sbraitando con toni fuori dalle righe, ma se si tratta di uscire dal mondo virtuale e mettersi in gioco in prima persona, c’è il fuggifuggi generale. E molti dei contestatori non si degnano nemmeno di recarsi alle urne. Ma né il mondo, signori, né la vostra città e nemmeno il vostro quartiere cambieranno solo perché avete la luna storta su Instagram, twittate rancore, inviate post tuonanti su Facebook.

Giornalisti, brutta gente

A proposito di democrazia. Qui, giusto un’infarinatura su un argomento che torneremo a trattare in modo approfondito più in là. Riguarda il nostro lavoro, di giornalisti. Sì, noi brutta gente impicciona. La recente norma Cartabia, in estrema sintesi, ha messo un primo bavaglio alle fonti di polizia giudiziaria, definendo che debba essere il procuratore a stabilire quali notizie passare alla stampa, sulla scorta di una salvaguardia della presunzione d’innocenza che nessuno aveva mai messo in dubbio prima. Un’invenzione allo stato puro.

Ovviamente, non ci siamo fermati. Abbiamo continuato a lavorare per come sappiamo, aggirando ostacoli con crescenti difficoltà, pur di informare i cittadini in modo completo. Ora, sembra che stia arrivando il secondo livello del bavaglio, con l’emendamento del deputato Enrico Costa, che potrebbe sul serio porre una pietra tombale sul diritto di cronaca per come lo conosciamo.

Come nella migliore tradizione italica, si tratta di una “trovata” politica trasversale in quanto a genitorialità: nasce in una parte dell’opposizione di governo, con poca resistenza nell’altra fetta di minoranza, e con la maggioranza alla quale, per dirla più o meno alla Marco Travaglio, non deve essere parso vero un simile servizio sul piatto d’argento.

È un tema che va approfondito meglio, il cui meccanismo deve ancora essere chiarito, tanto che vi sono al momento diverse chiavi di lettura, ma sul quale il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti sembra intenzionato a fare barricate un po’ più ferree rispetto a quanto accaduto con il passaggio della Cartabia, quello sì, senza colpo ferire.

In buona sostanza, l’impossibilità di pubblicare anche solo parti di un’ordinanza di custodia cautelare potrebbe condurre a scorrette interpretazioni, sintesi eccessive, ridimensionamenti (o, al contrario, ingigantimenti) di vicende giudiziarie. Con l’introduzione del nuovo emendamento, ne potrebbero derivare articoli poveri e monchi (addirittura tendenziosi), in un momento in cui la stessa norma Cartabia viene già interpretata in modo diverso in ogni singolo territorio. A queste latitudini, per esempio, si traduce in comunicati stampa con pochi dettagli e quasi sempre senza nomi, riportati a volte persino con sviste e omissioni scoperte proprio dopo aver ottenuto un’ordinanza.

Dunque, non si comprende la ratio di portare un cronista a svolgere male il proprio lavoro. O forse sì, una ratio ci potrebbe essere. Quella di far arrivare a un tale livello di esasperazione chi deve analizzare un caso, da gettare la spugna. Significa incanalare l’informazione verso un binario unico, in cui la politica riuscirebbe a esercitare un controllo, quando è per definizione il giornalista, in una democrazia, il cane da guardia del sistema. 

Una volta c’era almeno la bellezza

Immerso in queste e in altre riflessioni che si accavallano, mentre passeggio per il centro storico, i miei occhi si fermano sul prospetto di Santa Croce. Mille volte ci ero passato prima, mille volte ci passerò in futuro, ma sempre mi stupisco della sua luminosità, della ridondanza di elementi architettonici e simbolici scolpiti nella bianca pietra leccese, della festosità del barocco. E penso che i nostri antenati sapevano lenire le ferite dell’animo coltivando la bellezza, pur vivendo in epoche tumultuose. Oggi non facciamo neanche più quello. Seppelliamo le nostre città sotto coltri di cemento, ci curiamo poco degli spazi verdi e finirà che non guarderemo più neanche il cielo per paura di accorgerci che sul serio stanno avvenendo cambiamenti climatici.

P.S., aneddoto numero due: questa mattina ho parcheggiato in una stradina vicino all’ufficio. A un certo punto ho visto un oggetto volare. Poi, il tonfo. Proprio davanti a me, da un balcone al primo piano, qualche nemico giurato della Tari aveva appena lanciato un sacchetto pieno di spazzatura. E meno male che non si è aperto nello schianto al suolo. L’uomo ha notato solo un istante dopo che ero in auto e si è affannato a chiudere le ante della porta-finestra per rifugiarsi in casa. Mi sono detto: “Basta, la misura è colma”. Giusto pochi minuti dopo ho avuto la fortuna di incrociare alcuni agenti della polizia locale e segnalare la questione in presa diretta. Iniziamo tutti a difendere la nostra terra con piccoli gesti concreti.

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