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Cronaca

Osteoporosi, no tubercolosi ossea, no brucellosi. Ma orma era tardi

Diagnosi errate? Cure sbagliate? Decine di farmaci inutili? Una vicenda complessa che ricopre un arco temporale di anni, per la quale il legale della famiglia di una donna di Veglie ha avanzato opposizione alla richiesta di archiviazione

LECCE – Il gip Giovanni Gallo dovrà decidere a breve la sorte di un’inchiesta per omicidio colposo, nata da una denuncia presentata nel giugno del 2015, che al momento non annovera alcun indagato, ma che lancia una serie di sospetti per una sequela di presunte diagnosi errate che avrebbero se non generato, quantomeno forse concorso ad alimentare un calvario di anni per una donna. La quale, alla fine, morì.

Fu forse una brucellosi scoperta troppo tardi a portarla via. Di certo, in precedenza era stata diagnostica un’osteoporosi, ipotesi avvalorata più volte da specialisti di strutture diverse, salvo poi “sparire” in seguito a nuovi accertamenti per far spazio a una tubercolosi ossea, “scomparsa” infine anch’essa per arrivare alla scoperta di una brucellosi. Era il 28 agosto del 2013 quando sopraggiunse la morte. La donna era di Veglie e aveva 69 anni.

Il pm Massimiliano Carducci ha richiesto l’archiviazione non avendo riscontrato elementi concreti per cui procedere. I familiari della donna, assistiti dall’avvocato Rocco Vincenti, hanno avanzato opposizione. Nei giorni scorsi si è svolta l’udienza camerale davanti al giudice.

Troppo generici e vaghi i fatti esposti, ad avviso dell’organo inquirente, che abbracciano un arco di tempo molto vasto (almeno quattro anni) collocandosi a distanza anche dalla presentazione della denuncia; da qui, pure il mancato placet alla consulenza medico legale.

Non è ovviamente dello stesso avviso la famiglia, la quale ritiene di aver tracciato bene la vicenda, fornendo indicazioni su tutte le strutture pubbliche e private in cui la congiunta s’è recata e i nomi di tutti i medici che nel tempo l’hanno avuto in visita, con le varie diagnosi. Spetterà adesso al giudice per le indagini preliminari, dunque, sciogliere le riserve. La matassa, di certo, è piuttosto grossa. Perché bisogna districarsi fra decine di cartelle cliniche e consulti, ma anche fra esami strumentali e fra le letture di queste che individualmente sono state fornite.

La cronistoria è molto lunga, dunque, parte nientemeno che dal marzo del 2009, quando, lamentando forti dolori, la donna si sottopose ad alcuni accertamenti. E val la pena riassumerla, poiché è una vicenda del tutto inedita alle cronache. Ebbene, tutto sarebbe nato quando un medico chirurgo specializzato in cardiologia le stilò una prima diagnosi per “cardiopatia ipertensiva, versamento pericardico”. Il problema fu individuato con un ecocardiogramma. Si aggiunse a questo un quadro di “broncopatia cronica”. Fu consigliata una terapia a base di vari farmaci.

Il 7 maggio di quello stesso anno, su richiesta del medico di base, la donna fu ricoverata presso il reparto di Ortopedia e traumatologia dell’ospedale di Copertino per “edema diffuso in cardiopatia ipertensiva, flemmone della natica, dorsombalgia”. Cominciò anche ad avere linee di febbre, proprio nel corso del ricovero, ma dopo vari accertamenti fu dimessa nell’arco di cinque giorni con la diagnosi di “crollo osteoporotico di L3” (che indica notoriamente una vertebra, Ndr) e “ascesso al gluteo sinistro”. Tuttavia, a breve distanza, il 5 giugno, la donna tornò al pronto soccorso del “San Giuseppe” di Copertino, dove i sanitari la dimisero in capo a un paio di ore con una diagnosi di “flemmone regionale parasacrale destra”.

Nei due anni seguenti la donna di Veglie continuò a seguire la terapia indicata, pur rivolgendosi ad altri medici. Sembra, infatti, che i sintomi iniziali stessero peggiorando. L’8 febbraio del 2012, tra forti dolori alla schiena, febbre e inappetenza, si rivolse a una specialista in reumatologia, che, diagnosticando una “forte osteoporosi con crolli vertebrali multipli”, consigliò una risonanza del dorso lombare ed esami di laboratorio, prescrivendole anche farmaci per la cura dell’osteoporosi, un antipiretico per la febbre e un ciclo di chinesiterapia.

Poiché non vi sarebbero stati miglioramenti apprezzabili, il 21 marzo del 2012 la donna ricorse a un poliambulatorio privato dove un reumatologo, dopo aver esaminato i risultati degli esami di laboratorio e in seguito a una visita, parlò di “distiroidismo, sindrome di Sjogren, iperuricemia, pregressa tubercolosi e osteoporosi”. Le consigliò una densitometria ossea femorale, esame per la diagnosi dell’osteoporosi mai svolto fino a quel momento, indicando di proseguire con i farmaci terapeutici per osteoporosi.

Il 28 maggio del 2012 presso uno studio radiologico la paziente svolse gli esami indicati, e qui, secondo il referto, non vi sarebbe stata una rilevante riduzione densità minerale ossea. Dopo l’esito negativo dell’esame, la paziente tornò così al poliambulatorio dove una dottoressa, il 18 luglio del 2012, secondo quanto esposto nella corposa denuncia della famiglia, confermò molto di quanto già stilato dal collega reumatologo: “sindrome di Sjogren, distiroidismo, iperuricemia, pregressa tubercolosi polmonare e osteoporosi”. Sostenne quindi che dovesse proseguire la terapia già formulata.

Ai primi di settembre la donna di Veglie tornò per la terza volta al pronto soccorso dell’ospedale di Copertino, sottoponendosi alla radiografia della colonna lombosacrale, che evidenziò “avvallamento somatomarginale di L4 già noto”, riduzione di altezza anche del corpo di L1”, ma anche riduzione dello “spazio L5-S1” (lettere e numeri stanno sempre a indicare le vertebre, Ndr).

Il 14 settembre la paziente si recò presso uno studio medico, dove le fu diagnosticata “lombalgia con nuova frattura vertebrale in corso di terapia, Sindrome di Sjogren in terapia, cardiopatia ipertensiva” e “broncopneumopatia cronica ostruttiva”. Le furono consigliati alcuni farmaci, ma anche fornite indicazioni per eseguire altri accertamenti di laboratorio, da cui sarebbe risultato che i valori della Ves, della proteina C reattiva e dei globuli bianchi fossero molto più alti della norma.

Dieci giorni esatti dopo quella visita, in tarda serata, dato che febbre, dolore alla schiena e perdita di peso proseguivano inesorabili, la donna tornò per la quarta volta al pronto soccorso di Copertino. Qui, nel verbale, si evidenziò come la paziente riferisse di “febbre alta e dimagrimento” e fu disposto il ricovero in Ortopedia e traumatologia, con una diagnosi di “lombalgia acuta persistente in frattura vertebrale”.

In quel periodo fu sottoposta a esami di laboratorio con valori della Ves e dei globuli bianchi confermati oltre la norma. La terapia fu a base di cortisone e antinfiammatori. Venne dimessa il 3 ottobre, visti i sintomi di miglioramento in merito ai dolori, sebbene per la famiglia e il legale che si li segue, potrebbero essere stati sottovalutati proprio dimagrimento e febbre.

Tant’è. Dalla diagnosi di dimissione risultò un “cedimento somatico amielico di D12, in paziente con pregresso cedimento somatico di L3”. Le furono prescritti riposo a letto e busto ortopedico e le fu suggerito di usare farmaci con azione antidolorifica, antinfiammatoria e antifebbrile e per il trattamento dell’osteoporosi in pazienti in menopausa.

Ma il 17 ottobre, la donna decise di tornare in ospedale per l’ennesimo controllo, recandosi quella volta però al “Galateo” di San Cesario di Lecce. Qui, si ritornò sulla diagnosi di “osteoporosi severa con nuova frattura vertebrale” e il medico le indicò un farmaco per sei mesi, per il trattamento dell’osteoporosi in donne postmenopausa.

IMG_7635-2Nonostante l’assunzione del nuovo farmaco, costretta a vivere ormai a letto per i dolori e le continue fratture, si fece visitare il 7 dicembre del 2012 presso il “Sacro Cuore” di Gallipoli. E qui fu ricoverata nel reparto di Oncologia. Si sospettava un mieloma. Gli accertamenti per verificare l’esistenza di mielomi, arrivarono a un “quid”: esclusero del tutto la già diagnosticata e più volte ribadita osteoporosi. Smentendo così tutte le altre diagnosi e facendo temere i familiari che tutto il bombardamento di farmaci assunti fino a quel momento potessero aver prodotto effetti collaterali. Per inciso: non fu riscontrato nemmeno un mieloma.

Si arrivò intanto al nuovo anno e il 18 marzo del 2013 la donna subì l’ennesimo ricovero, in quel caso presso il “Perrino” di Brindisi, in Neurochirurgia, dove sintomi quali febbre, vomito, nausea, inappetenza e “sudorazione profusa”, più consulenza oncologica, indussero a formulare una nuova teoria. Alla “grave insufficienza epatica” si aggiunse un “crollo vertebrale d’ipotizzata origine tbc”. Dagli esami strumentali si arrivò così alla diagnosi del Morbo di Pott, cioè la tubercolosi ossea.

La terapia antitubercolare che ne derivò fu interrotta l’11 aprile 2013, per una “epatossicità colostatica”. Furono svolti i test di Coombs e di Wright per individuare la brucellosi, ma i risultati si rivelarono negativi, a differenza di quanto sarebbe accaduto in seguito. E per i timori legati alla tubercolosi ossea, i medici di Brindisi sottoposero a profilassi e controlli specifici anche i parenti più stretti.

Nel frattempo la paziente fu trasferita nel reparto di Malattie infettive. E, dopo terapia antitubercolare, fu dimessa il 10 maggio del 2013 con una diagnosi di “tubercolosi ossea in paziente con versamento pleurico e ascitico e pregressa grave insufficienza epatica acuta da farmaci, ipotiroidismo in trattamento, cardiopatia ipertensiva, diverticolosi del sigma e colon discendente e malattia infiammatoria cronica intestinale”. E ancora: “Calcificazioni a carico della flessura colica destra”.

Passò poco tempo. Il 22 luglio del 2013 un nuovo ricovero, questa volta al “Vito Fazzi” di Lecce. La febbre era tornata, salita in quel periodo addirittura a 39. La diagnosi di accettazione fu di “febbre e anemia in tubercolosi ossea”. Fu ricoverata con urgenza nel reparto di Malattie infettive. Ma al termine degli accertamenti necessari, invece di tubercolosi ossea od osteoporosi, come evidenziato fino a quel momento nel tormentato iter fra ospedali, studi medici e ambulatori vari, ecco che la paziente risultò positiva alla brucellosi. Furono riscontrati, inoltre, spondilopatia infiammatoria, broncopolmonite, altre forme non specificate di versamento pleurico (eccetto il tubercolare), insufficienza respiratoria acuta e cronica.

La nuova diagnosi sconfessava tutte le altre. Una situazione che gettò la famiglia nella confusione più totale, oltre che nello sconforto. La situazione, infatti, era ormai diventata irreversibile. I parenti decisero di firmare le dimissioni volontarie il 28 agosto. Poche ore dopo, la vita della donna si spense per sempre.

L’avvocato Rocco Vincenti è convinto, fra le altre cose, che una consulenza tecnica di un medico legale potrebbe chiarire i dubbi sulla correttezza di alcuni passaggi, in quest’intricata vicenda. E questo perché, è vero che tutto s’è sviluppato nel corso di un lungo arco temporale. Ma per la famiglia e il legale, potrebbe esservi stata una tale sequenza di errori nell’approccio da non permettere d’individuare subito la patologia precisa.

Prima osteoporosi, poi esami che sembravano negarla, ma con diagnosi ribadite, quindi tubercolosi ossea, infine il decesso per quella brucellosi evidenziata solo nei giorni in cui la donna ormai si stava spegnendo del tutto. Tutto questo, con l’assunzione di una serie infinita di farmaci. Non tutti probabilmente utili. Alcuni, forse, anche nocivi.

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