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L'interminabile viaggio al termine della notte di quei tifosi pazzi di amore puro

Mille chilometri fra andata e ritorno per masticare l'ennesima delusione. I vincitori morali sono ancora una volta i tifosi che, nonostante le amarezze degli ultimi anni, ai grandi appuntamenti hanno sempre rispsto con orgoglio e fiducia. Dai sorrisi all'amarezza finale. Aspettando che sorga una nuova alba

Il pullmino ondeggia lungo le strade che riporteranno a casa nove amici. Qualcuno piega la testa sul sedile, gli occhi gonfi di stanchezza e frustrazione. Altri osservano silenziosi un punto indefinito, mentre sfrecciano davanti al vetro sagome confuse di vallate inghiottite dal buio.

“La nostra vita è come il viaggio di un viandante nella notte; ognuno ha sul suo cammino qualcosa che gli dà pena”. Per un istante nella mente si accende il ricordo dell’antica lirica militare che dà spunto al titolo del primo romanzo di Cèline, “Viaggio al termine della notte”.

Luce-ombra. Tutta l’altalena di sensazioni masticate in un solo giorno si può riassumere nell’eterno dualismo che permea l’universo e che l’uomo carica quasi istintivamente di simbologia fin da quando disegnava scene stilizzate di vita quotidiana sulle pareti delle caverne.

Si parte al mattino sotto una luce estiva accecante, vibrante di gioia, vita, speranza. Si torna al calar della sera con il cuore gonfio dell’amarezza dei vinti e la consapevolezza di un altro anno nell’inferno del calcio che non conta.

Una stagione compressa in una gara è una minaccia velata alle coronarie che il tifoso giallorosso conosce già. Alle spalle ci sono l’onta di una retrocessione a tavolino e una mancata promozione che ancora brucia. Eppure, per una magica alchimia, ai grandi appuntamenti il sostenitore del Lecce risponde sempre con il cuore in mano. Gli puoi fare di tutto, non scucirgli di dosso la dignità, e neanche sottrargli il miraggio che si possa rinascere dalle ceneri.

Le delusioni, e poi i capelli ormai spolverati di bianco, mogli e figli a casa, qualche chilo di più non possono cancellare il sentimento. Non è facile. Non è così che funziona. Non si può dare un colpo di spugna alla passione, e via, c’eravamo tanto amati. Ci si ritrova così sempre gli stessi, incuranti del tempo che passa, “a far le zingarate”, come in una riedizione atto secondo e mezzo (terzo sarebbe eccessivo) di “Amici miei” in salsa salentina a sfondo calcistico.

Si fa il pieno di panini e birre e si parte verso Frosinone. Sosta all’area di servizio di Ofanto Sud, ed è lì che si assume piena coscienza di quanto grande, immenso sia quel cuore giallorosso. Pullman, auto, intere famiglie. Scendono in centinaia, si riconoscono volti di amici di gioventù, quelli con cui ci si è persi di vista e a volte non si sa neanche perché. Il grande cuore pulsa emozioni.  

C’è persino chi è appena rientrato dall’Irlanda dove ormai ha trovato la sua vita e, senza capire come, s’è ritrovato per sorpresa un biglietto fra le mani. “A Torre Lapillo ci vai domani, oggi ti fai una gita nella campagna ciociara”.    

E’ un fiume in piena di orgoglio, una grande festa colorata di giallo e rosso. Si brinda e ci si abbraccia sotto un sole che picchia inesorabile, e si vorrebbe fermare il tempo, rendere eterno quest’attimo di gioia allo stato puro incorniciato nel bizzarro contorno di un anonimo autogrill. 

Si riparte più carichi e ottimisti che mai, lasciandosi l’interminabile Puglia alle spalle. A Frosinone nel logoro “Matusa” si erge un muro umano che ricorda per numero, colore e calore antiche e memorabili trasferte dove in palio c’era il salto dalla serie B o la permanenza in A. Per un attimo si respira la stessa aria degli anni ’90.

La visibilità è scarsa dal basso, molti intuiscono, più che capire, le azioni di gioco e dopo una ventina di minuti quel Beretta arrampicato sulla recinzione significa solo una cosa: la gara sta andando per il verso giusto. Il boato per il gol è liberatorio, il tifo che ne segue martellante come e forse più dell’inizio. Sul filo di lana del primo tempo, però, tal Paganini si erge sontuoso di testa e fa una sviolinata proprio davanti alla sua curva.

Sulla sponda leccese cala il gelo, ma non ancora il sipario.

Perché è vero, un momento, un attimo, e cambia la direzione del vento. E’ vero, l’intuizione è che nella ripresa sarà un’altra musica. Eppure, la fiducia e la speranza non tramontano al primo alito negativo. Si è marciato per 500 chilometri e altrettanti ne verranno sulla via del ritorno non certo per farsi travolgere dai malumori. E allora, si soffre e si rischia, si canta e si canta ancora, e ci si ritrova allo scadere dei novanta minuti regolari sudati forse più dei calciatori in campo, stretti come sardine in una scatola rovente.

Si riparte con un’incrollabile fede nel destino, uno stoicismo commovente, sostenendosi l’un l’altro. “Ce la faremo, tutto va male ma ce la faremo”. Poi, però, l’arbitro sventola il rosso sotto il naso di Beretta e lì vacillano anche i più imperturbabili. Per chi sa leggere fra le righe di una sfida ad alta tensione, è il segnale inequivocabile della caduta imminente. Non si può che sperare nei rigori, ma la feroce lotteria che affida ai piedi dei più lucidi le sorti di un’intera annata non arriverà mai. Frara chiude virtualmente i conti, Viola lo fa ufficialmente.

20140607_205118-2Nel frattempo, due invasioni di campo dei tifosi di casa a gara in corso, il caos, gli sfottò dei frusinati ai leccesi che quasi nemmeno rispondono, presi come sono da uno choc che impietrisce.

Inizia a scendere la sera. Brucia qualcosa alle spalle del settore ospiti, in cielo si solleva una nuvola nera che sembra sintetizzare tutta la mortificazione di un altro anno andato in fumo nel gran finale. A volte ritornano, anche le beffe.  

Ci si ritrova poco dopo nei mezzi, muti e stravolti, diretti verso casa, quasi in remissiva fuga da una Frosinone amara. “Ce la fai a guidare? Se vuoi mi metto io al volante”. Si va via, ognuno con il suo viaggio interiore, attendendo il termine della notte. Perché la notte non può essere eterna. Sorge sempre una nuova alba. Deve sorgere.        

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