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Lunedì, 29 Aprile 2024
Al 56,3 percento

Occupazione, dato in aumento: "Ma non equivale a miglior benessere"

Report dell'osservatorio economico Aforisma: nel 2022 risultano, in provincia di Lecce, 8mila occupati in più dell'anno precedente, ma l'assenza di un salario minimo legale e la proliferazione dei contratti collettivi restano i nodi principali da sciogliere

LECCE – Anche in provincia di Lecce aumenta il numero degli occupati e diminuisce sia quello dei disoccupati, sia quello degli inattivi. Lo dice il nuovo studio dell’osservatorio economico Aforisma, diretto da Davide Stasi.

Se nel 2021 gli occupati erano 236mila, nel 2022 ne risultano 244mila (a fronte di una popolazione totale di 770mila). Il tasso di occupazione (rapporto tra numero di occupati e popolazione tra 15 e 64 anni) passa dal 55,5 al 56,4 percento. Se nel 2022 risultano 36mila disoccupati, nel 2021 erano 43mila. Il tasso di disoccupazione (rapporto numero di disoccupati e popolazione formata da occupati e persone che cercano lavoro) è passato dal 15,7 al 13,1 percento. Per quanto riguarda il tasso di inattività (rapporto tra le persone che non lavorano né cercano lavoro e il totale della popolazione) nel 2022 è stato del 43,6 percento a fronte del 44,5 dell’anno precedente (in valore assoluto 211mila contro 218mila).

Sono dati che complessivamente collocano la provincia di Lecce al di sopra della media regionale, ma che, come spiega Stasi “non si traducono in un miglioramento dei livelli di benessere della nostra società. Anzi, spesso celano situazioni di precariato e sfruttamento. Per questo risulta importante affrontare il tema della giusta retribuzione e salario minimo. Nel nostro ordinamento, infatti, non esiste un livello minimo di paghe fissato per legge, ma l’articolo 36 della Costituzione riconosce il diritto, per il lavoratore, ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Secondo l’esperto di analisi economica esiste, intanto, una questione relativa alla proliferazione dei contratti nazionali (nell’ultima ricognizione del Cnel sono depositati in archivio 946 contratti collettivi per i lavoratori dipendenti nel settore privato, 18 contratti per i lavoratori dipendenti nel settore pubblico, 12 per i lavoratori parasubordinati e collaboratori, 31 accordi economici collettivi stipulati per alcune categorie di lavoratori autonomi: “L’elevato numero di contratti nazionali – spiega Stasi - ha dato luogo al fenomeno del cosiddetto dumping contrattuale, vale a dire l’applicazione di contratti firmati da organizzazioni datoriali e sindacali che non risultano maggiormente rappresentative e che applicano minimi tabellari più bassi”.

Poi c’è il tema, tutto italiano, della mancata previsione di un salario minimo legale: “Attualmente, il salario minimo esiste in tutti gli Stati membri dell’Unione europea: in 21 Paesi esistono salari minimi legali, mentre in sei Stati membri (Danimarca, Italia, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia) la protezione del salario minimo è fornita esclusivamente dai contratti collettivi”.

Fondamentale, a questo punto, sarà la maniera in cui l’Italia recepirà la direttiva europea del 2022 relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea. Gli stati membri hanno tempo fino al novembre del 2024.

““La direttiva - chiarisce Stasi - non configura l’obbligo per gli Stati membri di introdurre un salario minimo legale, laddove la formazione dei salari sia garantita esclusivamente mediante contratti collettivi, né quello di dichiarare un contratto collettivo universalmente applicabile, ma chiede agli Stati membri in cui sono previsti salari minimi legali di istituire le necessarie procedure per la loro determinazione ed il loro aggiornamento, sulla base di criteri che ne assicurino l’adeguatezza, al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso, ridurre la povertà lavorativa, promuovere la coesione sociale e una convergenza sociale verso l’alto, nonché ridurre il divario retributivo di genere. I criteri per tale aggiornamento, che deve avvenire almeno ogni due anni (quattro per gli Stati che ricorrono ad un meccanismo di indicizzazione automatica) con il coinvolgimento delle parti sociali, comprendono almeno il potere d’acquisto dei salari minimi legali, tenuto conto del costo della vita; il livello generale dei salari e la loro distribuzione; il tasso di crescita dei salari; i livelli e l’andamento nazionali a lungo termine della produttività”.

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