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Gallipoli

Processo Padovano: i ristoratori della Città Bella negano le pressioni e le minacce

Nuova udienza nel procedimento per la morte del boss della Scu, Salvatore Padovano. Gli imprenditori chiamati sul banco dei testimoni hanno spiegato di aver acquistato liberamente prodotti alimentari dalla cooperativa gestita dagli imputati

LECCE – Torna in aula, dinanzi ai giudici della Corte d'Assise di Lecce, il processo per l’omicidio del boss della Sacra corona unita, Salvatore Padovano, avvenuto il 6 settembre del 2008 a Gallipoli, nei pressi della pescheria “Il Paradiso del Mare”. Processo che vede come imputati Rosario Pompeo Padovano, fratello di Salvatore; Giuseppe Barba; Cosimo Cavalera; Fabio Della Ducata;

Massimiliano Scialpi e Giorgio Pianoforte. Carmelo Mendolia, collaboratore di giustizia, ha scelto invece il giudizio abbreviato ed è stato condannato a 14 anni di reclusione. Le indagini sulla morte di “Nino Bomba” hanno permesso di far luce anche sull'omicidio di Carmine Greco, risalente al lontano 13 agosto 1990. Un delitto avvenuto nell’ambito della gestione del traffico di sostanze stupefacenti. Greco avrebbe “spacciato ingenti quantitativi di droga sul territorio di Gallipoli da “cane sciolto”, senza rendere conto della sua attività all’organizzazione”. Anche in questo caso Rosario Padovano sarebbe il mandante, Mendolia l'esecutore materiale.

Nel corso dell’udienza sono stati ascoltati alcuni dei titolari dei principali ristoratori della “città bella”: Cosimo e Damiano Rizzello, titolari de “L’aragosta” e del “Tramonto”; i fratelli Antonio Quintana, proprietario del ristorante "Mare chiaro”, e il fratello Franco. Tutti i testimoni hanno negato di aver mai ricevuto minacce o intimidazioni dai presunti esponenti del clan, spiegando di essersi limitati ad acquistare i prodotti dalla cooperativa gestita dagli imputati solo in base alle leggi del mercato. L’udienza è stata aggiornata al prossimo 25 giugno.

Le indagini, coordinate dal sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, Elsa Valeria Mignone, hanno ricostruito scenari e moventi in cui l’omicidio avrebbe avuto origine. Un delitto di mafia scaturito dai contrasti sorti tra i Padovano all’indomani della loro scarcerazione. In quest’ottica, secondo la ricostruzione accusatoria, sarebbe scaturita la volontà di Rosario Padovano, in qualità di mandante, di far uccidere Salvatore, alias “Nino bomba”. Esecutore materiale, Mendolia, collaboratore di giustizia e già autoaccusatosi dell’omicidio. Della Ducata gli avrebbe fornito ospitalità a Gallipoli, presso la propria abitazione, e gli avrebbe consegnato, pochi giorni dopo l’omicidio (a Casamassima, in provincia di Bari), una parte dei 10mila euro di compenso pattuito, pari a 6.770 euro. Pianoforte, cugino dei Padovano, avrebbe chiamato Salvatore fuori dalla pescheria di famiglia “dicendogli che una persona gli aveva tamponato la macchina”. In realtà, ad attenderlo vi era Mendolia che l'avrebbe freddato con quattro colpi sparati con una pistola “Beretta modello 83 F”.

Diversa la versione fornita da Salvatore Padovano, reo confesso dell’omicidio, per cui si sarebbe trattato soltanto di “una vicenda familiare”, in cui lui è stato il mandante e Mendolia l’esecutore materiale.

Gli affari del clan Padovano gestiti da “irriducibili”

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