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Terzapagina. Ritratti. “L’ultima Thule”. Il commiato musicale di Guccini

L'artigiano di Pavana si congeda dal ruolo di cantautore con un album intenso e nostalgico: otto canzoni, per chiudere una carriera iniziata 45 anni fa col "Folk Beat". Il tema nel mito nordico della terra estrema da raggiungere

“Gli artisti non nascono artisti”. La normalità come esigenza e la semplicità come stile rappresentano da sempre per Francesco Guccini, vate delle osterie di fuori porta, marchi di fabbrica imprescindibili, “sian stati i libri” o il “provincialismo”, nella misura necessaria a rifuggire l’etichetta di “artista”. Forse, per colpa dell’inflazione di un termine, facilmente affibbiato ad ogni latitudine e ad ogni discutibile talento. Meglio professarsi “artigiano” della musica, con quell’appellativo che riecheggia di militanza e brilla di passione popolare.

Ma c’è una profonda nobiltà, tuttavia, in quella capacità artigianale, creativa, manuale di scrivere pezzi, a metà tra canzoni e poesia. È sempre stato un pregio per Guccini, tra “angoscia e un po’ di vino”. “L’ultima Thule” è una sorta di testamento da vivo di uno dei più prolifici ed ispirati cantautori che la storia italiana accoglie, una delle poche voci, che appartiene alla ristretta cerchia di quella tradizione preziosa ed impareggiabile, che annovera nomi come De Andrè, Gaber, De Gregori, Dalla, Fossati, Vecchioni e Battisti.

È più un commiato dalla musica, quella esperienza di cui l’artigiano di Pavana (luogo delle origini, sull’Appennino tosco-emiliano, dove è stato registrato l’album) sembra quasi essersi stancato, 45 anni dopo il “Folk Beat”. Guccini mette un punto sulla sua parabola cantautorale ora che percepisce alta l’attenzione del pubblico (e lo dimostra il fatto che l’album sia subito schizzato nelle prime posizioni delle classifiche musicali). Ma non abbandona la scrittura, anzi se ne nutrirà sotto altra forma, dedicandosi ai romanzi. Non ripone la penna, ma appende l’ugola al chiodo.

Eppure il manifesto del saluto musicale, che pesca nel titolo dentro la metafora del mito nordico di una terra estrema, simbolica dell’esistenza, che si spegne nel freddo di un ghiaccio e nella memoria che si smorza, è veramente ispirato, tanto da segnare il passo alla nostalgia della consapevolezza di non sentire più altri brani inediti oltre questi di un fuoriclasse come Guccini. Ma il richiamo “intimista”, di un ritorno a sé, fuori dalle scene, sembra prevalere.

Del resto, è l’intimismo a penetrare questo lavoro, caratterizzato da uno sguardo che rilegge il presente, con la cultura di un passato che sembra smarrito o che rivive in parte solo nelle emozioni, anch’esse, tuttavia, in balia del tempo che scorre. Qualche critico ha evidenziato nei temi dell’album la presenza della “medesimezza umana” di gramsciana memoria, che dalla propria visione sul vissuto si propaga nell’esistenza di molti e la investe.

E tutti quelli che, come chi scrive, amano profondamente quel corpaccio e quella voce e quelle idee che abitano la sua mente, si sentono stanati nel profondo, nelle pieghe più ascose del loro universo interiore, e forse hanno un’occasione in più di migliorarsi e spurgarsi dall’oscuro che inevitabilmente ci abita.

C’è la malinconia di un passato, di ideali, profumi, quotidianità senza fronzoli, c’è l’omaggio alla resistenza di “Quel giorno d’Aprile”, la critica al carosello della seconda repubblica berlusconiana, ne “ Il testamento di un pagliaccio”. Otto tracce, costruite in otto anni di attesa, di scrittura, di parole in musica. Che cullano l’ascolto e restano tra le note ad interpellare l’anima sulla direzione, su quell’ultima Thule, che si esaurisce nella domanda di una vita davvero realizzata. Un soffio di poesia, a tratti duro e disincantato, che graffia il cuore e non lascia indifferenti.

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