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Domenica, 28 Aprile 2024
Cronaca

L'università in tilt: ricerca e ricambio le priorità

Non è solo il ministro Gelmini la responsabile dell'attuale situazione. I mali dell'università, che le riforme hanno aggravato, vengono da lontano e da un sistema di potere che penalizza il ricambio

LECCE - Le scaramucce prima dell'assemblea in ateneo, al termine del corteo contro la riforma Gelmini della scuola e dell'università, sono l'immagine più appropriata per descrivere il disegno che c'è dietro il progressivo smantellamento del sistema di istruzione pubblica esistente.

Un percorso iniziato nei primissimi anni novanta e proseguito senza sosta fino a oggi, grazie a governi tanto di destra quanto di sinistra. Avevano ragione i latini e questa non è una novità: separare per governare. La storia, purtroppo, si ripete.

Tutti contro la Gelmini. È una cosa diversa rispetto all'essere tutti insieme contro un ministro che ha deciso di intervenire drasticamente e con qualche ragione, questo va detto subito. Studenti radicali contro studenti riformisti, ricercatori a tempo indeterminato contro ricercatori a tempo determinato, assegnisti, contrattisti e - dulcis in fundo - dottorandi, contro gli ordinari e gli associati, a loro volta contrapposti. Chi è già aggrappato a una poltrona, chi vive nella speranza di occuparla al più presto, sia per vedere riconosciute le proprie capacità e le legittime aspirazioni in un sistema di reclutamento perverso, sia per rompere al più presto le catene di un ricatto esistenziale ancorato al precariato.

Al vertice della piramide gerarchica sanno perfettamente come spezzare la solidarietà di classe, che non va intesa in senso ideologico - per carità di Dio - ma come consapevolezza di appartenere ad un sistema complesso dove gli interessi degli uni non sono necessariamente conflittuali o comunque inconciliabili con quelli degli altri. Ed ecco, che, chiudendo il rubinetto dei finanziamenti si scatena il panico. Da che mondo è mondo funziona così. Poi si passa alla fase delle trattative, delle promesse sottobanco, delle dichiarazioni: tra le ultime l'impegno a indire nei prossimi sei anni novemila concorsi per professore associato e la possibilità di pensionamento a 78 anni per i rettori, gli stessi che in primavera avevano annunciato barricate contro il taglio del fondo ordinario per l'università.

Muovendo la leva degli interessi, l'unità del fronte si spezza. Ognuno per la sua strada, ognuno con la propria capacità contrattuale, spesso scarsa o nulla. Il punto è che non si può andare avanti così. I metodi spiccioli di un governo che taglia senza criterio, che umilia la ricerca, che si colloca agli ultimi posti nei paesi occidentali per investimenti non devono nascondere l'insostenibilità di un sistema marcio in profondità. I concorsi per l'insegnamento sono una barzelletta e quelli dove si premia veramente il merito continuano ad essere una eccezione. I baroni imperversano nelle facoltà come hanno sempre fatto, decidendo chi va avanti e chi no. E chi sta sotto, per ragioni logicamente comprensibili, accetta la perversione del meccanismo pur di farne parte.

Sui bilanci di ateneo gravano come macigni gli stipendi degli ordinari - almeno 4000 euro netti al mese - mentre per la ricerca, quella vera, bisogna fare miracoli per trovare quattro soldi. Ci sono tuttora troppi corsi di laurea e nemmeno il ridimensionamento avviato nell'ultimo periodo permette di coprire tutte le cattedre vacanti. Per questo viene chiesto ai ricercatori di fare didattica, cosa alla quale non sono tenuti e forse nemmeno preparati.

Stando così le cose una riforma è comunque necessaria ma strutturale, di sistema. Le priorità sono il turnover e adeguati investimenti sulla ricerca, l'unico strumento con il quale il Paese può competere a testa alta. Altrimenti il cane si morderà sempre la coda.

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