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Cronaca

Compagni violenti e ossessivi, condannati due uomini incubo delle ex

Sono un rumeno 25enne e un salentino 44enne. Minacce di coltellate, botte e, nel secondo caso, una folle notte con quattro agguati

LECCE – Violenti, possessivi e ossessivi. Storie diverse, di persone di nazionalità diverse, residenti in comuni diversi, unite fra lor da un sottile fil rouge che le rende tragicamente fin troppo simili: la volontà di annientare la dignità delle proprie ex compagne. Donne che, nonostante la paura, hanno comunque avuto il coraggio di chiedere aiuto, fare arrestare e poi condannare quegli uomini maneschi e dai metodi sopraffattori. Spezzando la catena, forse, un attimo prima che si arrivasse a un fatidico punto di non ritorno. Entrambi questi uomini, che erano già in carcere al momento del processo, svoltosi con il rito abbreviato, sono stati condannati con sentenze del giudice Michele Toriello.  

“Come arrivo in Italia ti do venti coltellate”

La prima storia vede protagonista un giovane rumeno, A.O.C., di 25 anni. Teatri della vicenda, i vicini comuni di Galatone e Nardò. In Italia il 25enne aveva stretto una relazione sentimentale con una donna, anche lei straniera, che sarebbe però sfociata, ben presto, in prevaricazioni continue. Insulti irripetibili, botte ed esplicite minacce di morte. Ma mai alcuna richiesta di intervento del 118, mai una denuncia, per paura di vendette. Nemmeno quando lei avrebbe scoperto di attendere un bambino. Anzi, a partire dal febbraio 2019 la situazione sarebbe diventata insostenibile. Fino a trovare finalmente il coraggio di tagliare i ponti.

L’allontanarsi da quel giovane violento, però, non avrebbe sortito l’effetto sperato. Dopo la separazione, il consueto secondo atto già visto in molti di questi casi, quello delle persecuzioni. Con messaggi continui dal tenore che definire pesante sarebbe poco. “Come arrivo in Italia – le ha scritto una volta - ti do venti coltellate”. Ancora: “Ti devo distruggere in modo che nessuno deve avere a che fare con te”.

Tutto questo, fino a spingersi un giorno, il 25enne, a recarsi sotto l’abitazione di una persona anziana, dove la ragazza prestava servizio in qualità di badante, aggredendo la ex all’esterno con pugni in testa, per otto giorni di prognosi finale. Non mancando d’infilarsi anche in casa della malcapitata, in un momento in cui lei era assente, per spaccare tutto: arredi, porte, finestre, elettrodomestici. Un tifone scatenato che, sotto minaccia e picchiando la donna persino al cospetto di un figlio minore, l’avrebbe obbligata anche a farsi dare le chiavi dell’appartamento. Per il 25enne, arrestato il 18 maggio scorso e difeso dall’avvocato Andrea Frassanito, tre anni di reclusione.

“Lei deve morire e chi mi ha picchiato deve pagare”

L’altra storia arriva da Monteroni di Lecce. Con un arresto effettuato dai carabinieri della sezione radiomobile di Lecce il 21 maggio, soltanto tre giorni dopo il caso del rumeno. In questa vicenda, a essere ammanettato, O.M., 44enne della zona di San Cesario di Lecce, difeso dagli avvocati Giuseppe Distante e Simona Tommasa Mancini.

Il giorno dell’arresto il 44enne ha innescato un crescendo di eventi a dir poco surreale, iniziati di notte e culminati all’alba del giorno dopo, con continui assalti all’abitazione della sua ex a Monteroni di Lecce, sempre respinti grazie al risoluto intervento di un vicino di casa con il quale, alla fine, sarebbe inevitabilmente arrivato anche alle mani. Finendo per prenderle.

Non avendo accettato la separazione dalla sua ex, con la quale in precedenza aveva convissuto, il 44ene, affetto da una forma di gelosia definita “morbosa” e già autore di precedenti atti persecutori, nella tarda serata del 20 maggio si sarebbe presentato sotto casa di lei, pretendendo con insistenza di avere notizie sulla sua vita privata e “decidendo” che i due avrebbero dovuto formare nuovamente una coppia.

Ovviamente, lei non ne aveva alcuna voglia, tanto che prima era intervenuto il vicino per calmare gli animi, e poi i carabinieri. Una volta allontanatosi, però, intorno alle 3,30 di notte, il 44enne era tornato alla carica. Prima iniziando a tempestarla di messaggi e chiamate usando il telefono del proprio figlio, per non farsi riconoscere subito e ottenere una risposta, poi, davanti al rifiuto di un incontro, ripresentandosi sotto casa, scavalcando il cancello e iniziando a sferrare calci e pugni al portone.

Da lì, urla, che avevano attirato di nuovo il vicino, e altre chiamate al 112. Il vicino, sempre con le buone, lo aveva convinto ad allontanarsi, anche perché i carabinieri erano in arrivo. Ma la storia non era finita lì. Fattasi l’alba ed essendo sempre l’uomo rimasto – evidentemente –in zona -, avendo dimenticato la ex compagna, nell’agitazione del momento, la porta aperta, era riuscito a introdursi nel villino. E a quel punto, il confronto faccia a faccia, con il figlio 17enne intervenuto a difesa della madre. Fino all’ennesimo ritorno del vicino che, sentite le urla, si era riaffacciato, trovandosi davanti a questa scena: il 44enne che teneva stretta al collo la donna con un braccio e, con l’altro, mollando ceffoni al ragazzo, per allontanarlo. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

Il vicino, a quel punto, era intervenuto di petto, ingaggiando una colluttazione con il 44enne che, spinto, aveva battuto la testa, ferendosi all’arcata sopraccigliare destra. Tutto ripreso dalla donna con il cellulare, in un video poi mostrato ai carabinieri. E il 44enne? Allontanatosi di nuovo, era ritornato poco dopo sul posto (la quarta volta, sì). E non più solo, ma in compagnia di fratello, figlio e cugino. Gli ultimi due, visto che i carabinieri erano ancora sotto casa, se l’erano subito svignata. A rimanere, il 44enne e il fratello, subito identificati.

“La situazione la devo risolvere io”, aveva però subito detto l’uomo, di fronte agli stessi militari. “Lei deve morire e chi mi ha picchiato deve pagare”. Continuando imperterrito a cercare un contatto fisico con l’ex compagna. Nemmeno in caserma, dopo aver perquisito l’auto e aver trovato pure tre spranghe di ferro, il 44enne si era calmato. “Non finisce qui, mi possono pure arrestare, tanto qualcun altro farà giustizia per me”. E ancora altre frasi minacciose, messe a verbale. Due anni la sentenza finale.

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