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Lunedì, 29 Aprile 2024
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Il suo nome in quella che è considerata la nuova enciclopedia della musica italiana: intervista a Marco Ancona

Menzionato in “Cantautori e cantautrici del nuovo millennio", il musicista leccese è stato definito dalla rivista Rolling Stone “uno degli artisti cardine della scena underground italiana”. Ha pubblicato poche settimane addietro il primo album solista, anticipato dal singolo “Non ascolti più”

LECCE – Anima punk. Due gabbiani auto tatuati con della china sul polso all’età di 13 anni, tributo a Christiane Felscherinow e al film “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”. La passione per gli spinaci, per i Beatles e per i giardini Zen. Tremila concerti in quasi 30 anni di carriera. E, da qualche settimana, il suo primo album da solista. Marco Ancona, musicista e cantautore salentino, è stato definito dalla prestigiosa rivista Rolling Stone  “uno degli artisti cardine della scena underground italiana”.

“Quando resta solo il nome” è il titolo del lavoro pubblicato esclusivamente su piattaforme online, dunque non su cd. Prende il titolo dall’omonimo (e intenso) brano, prodotto per primo già nel 2017 e contenuto nel concept album, “da ascoltare tassativamente in ordine”, raccomanda più volte. Ma di “nomi rimasti”, qui, spicca proprio quello di Ancona: non soltanto per l’autorevole riconoscimento di Rolling Stone, ma per essere divenuto una “voce” all’interno di "Cantautori e cantautrici del nuovo millennio", la nuova enciclopedia della musica italiana.

Il nome di Marco Ancona compare infatti tra quello di celebri artisti sul dizionario enciclopedico ed è stato inserito da Michele Neri, critico musicale, autore televisivo RAI e direttore della rivista di settore “Vinile”. Abbiamo chiacchierato con Marco Ancona sul suo ultimo progetto, dopo quelli con Amerigo Verardi (“l’artista col quale ho collaborato meglio”), i Bludinvidia e i Fonokit, in attesa delle prime esibizioni live previste già per il 28 dicembre al Cantiere di Lecce e il giorno dopo, al Periferia di Taurisano. Sarà accompagnato da Francesco Pennetta alla batteria, da Christine IX al basso e da Matteo Bemolle alle tastiere.

Sono tutti strumenti che tu sei in grado di suonare. Come nasce, musicalmente, Marco Ancona?

“Ho imparato ascoltando dischi. Mio padre suonava per hobby e a 10 anni mi ha messo in mano una chitarra. Ascoltavo i Beatles e Lucio Battisti e, per curiosità, riportavo poi quella musica su un organetto giocattolo. Il basso mi piaceva molto e la chitarra è valsa come aiuto. Poi a 13 anni la scoperta della batteria, in una età nella quale mi ero avvicinato ai Rolling Stones, ai Sex Pistols, al punk, così come al grunge dei Nirvana. Quelle della batteria sono state le uniche lezioni di musica, per curiosità, ma mi annoia suonarla. L’ho ripresa durante il lockdown e l’ho suonata in un paio di brani. Il resto del nuovo album è in realtà quasi interamente suonato dal sottoscritto, aiutato soprattutto da Francesco Pennetta alla batteria e da mio fratello al basso ospite in tre brani.”

E dopo il periodo dell’infanzia?

“Quando frequentavo il liceo (scientifico, ndr), me ne andavo già in giro per serate nelle varie province pugliesi. Il giorno dopo a scuola mi addormentavo. Quando è arrivato il momento della maturità non me ne sono neppure accorto: non ne avevo tempo per altro perché la mia passione era già divenuta lavoro. Scrivo canzoni da quando avevo 14 anni: ero convinto che, impegnandomi parecchio, avrei potuto davvero vivere di quelle”. 

Se non un musicista, chi saresti potuto diventare?

“Il disegnatore di fumetti in bianco e nero, nonostante non legga fumetti, ma apprezzando le vignette di satira politica. Da bambino non amavo colorare, ma disegnavo tutto il giorno.”

Qual è il fil rouge di questo concept album e l’idea di renderlo rintracciabile solo sulle piattaforme e non su un convenzionale cd?

“Parliamo di nove canzoni, per un totale di undici tracce: ho inserito delle brevi inserzioni musicali, perché si tratta appunto di un concept album. A tenerle tutte unite è una mia fantasia intimista che galleggia fra l’autodistruzione di se stessi e, parallelamente, la distruzione del mondo. Tutto è cominciato pubblicando singoli, in particolare “Quando resta solo il nome”, nel 2017. Era quasi pronto anche “La rivoluzione”, ma è sopraggiunto il lockdown e la pubblicazione è stata posticipata al 2022. Sono seguiti gli altri brani, fino a comporre l’album. La seconda parte del disco è frutto del lavoro realizzato proprio nel periodo della pandemia e ne è stato in parte influenzato: stando solo ero sempre in studio di registrazione, leggevo moltissimo, monitoravo i telegiornali e anche i commenti sui social network, per respirare l’aria del Paese”.

Come nascono i tuoi testi?

“Dal mio umore: sono testi mai troppo allegri. Ma il rock and roll del resto è destabilizzazione di concetto. I miei brani sono emotivi, intimisti. Soltanto uno degli ultimi singoli allude maggiormente a questioni sociali.”

A questo proposito, ti veste bene l’etichetta di “rock alternativo” affibbiata al tuo genere? Alternativo a che cosa?

“A me sta stretto “rock”, non “alternativo”. Alternativo, per cominciare, vuole esserlo rispetto a tutte quelle produzioni che godono della distribuzione musicale attraverso canali mainstream. Non a caso non mi è mai piaciuto ascoltare la radio, raramente viene passata musica per me interessante. Nel rock alternativo in genere non vengono utilizzati cliché dal facile ascolto”.

Chi è l’artista? Il suo talento emerge dai brani o brilla prevalentemente sui palchi e nei live?

“Quella dell’artista è una razza disgraziata. Solitaria. A meno che non abbia il rifugio di una famiglia, non incontrerà gli orari, i canoni comuni. Si legherà quasi sempre a colleghi che quasi mai risiedono nei suoi stessi luoghi: forse li rivedrà dopo tre anni, per caso. Come dico spesso di me stesso: sono uno che si incontra. Sulla questione dei concerti, invece, bisogna considerare un inghippo: il vero musicista è concentrato sui suoi brani, non scrive canzoni per l’attività live. I concerti si organizzano per vivere, per affiancare l’attività lavorativa a quella creativa. Fare musica per me non è suonare dal vivo e invece molti artisti lo credono. Sul palco non stai creando nulla, a meno che non ti occupi di jazz, blues o comunque di generi musicali che si fondano prevalentemente sull’improvvisazione estemporanea. La creatività l’hai avuta ben  prima, sia nella scrittura, sia nell’atto di tradurre ciò che avevi in testa in parole”.

Ci sono musicisti contemporanei, italiani e non, che segui con interesse? Hai visto di recente un concerto ideale?

“Il concerto preferito, oggi, non potrebbe che essere il mio: conterrebbe interamente canzoni che mi piacciono. Quanto alla musica contemporanea, nulla in giro che mi interessi davvero o che sia degno di nota. Musicalmente non sono rimasto sorpreso da niente che sia venuto fuori dal Duemila in poi circa.”

E se dovessi scegliere tra Guccini, Battiato e De Andrè?

“Non ho dubbi: Bob Dylan”.

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