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Dopo 50 anni, nuovi scavi archeologici nella grotta: scrigno preistorico che restituì le due Veneri

I ricercatori dell’Università di Firenze, in collaborazione con l’ateneo leccese, il Museo e Istituto fiorentino di Preistoria e con l’amministrazione di Parabita, hanno avviato una nuova fase di studio con concessione triennale rilasciata dalla Soprintendenza. Nella visita sul posto abbiamo incontrato anche il docente che, nel 1965, ritrovò le celebri statuine

PARABITA – Giorni di fine estate, simili a quelli in corso, di 57 anni fa. Spuntano dalla cavità di una grotta nelle campagne di Parabita completamente incrostate di terra. Intagliate. Stagliate lì, nei pressi di una sepoltura. La silhouette appena riconoscibile: non hanno infatti mostrato da subito la loro femminilità incisa in ossa animali. Solo in un secondo momento si sono palesate agli archeologi in tutto il loro valore: le Veneri, tra le più prestigiose testimonianze della preistoria, risalenti a circa 25mila anni fa (nella foto accanto, dal sito del MarTa di Taranto).

MArTA-museo-archeologico-nazionale-taranto-Veneri-di-Parabita-2“Sembravano due punteruoli”, ci ha raccontato emozionato Antonio Greco, colui che ha rinvenuto nel 1965 le Veneri di Parabita, statuette di 6 e 9 centimetri, ora conservate presso il Museo archeologico “MarTa” di Taranto. Dopo un fermo durato tanti, troppi anni, sono ripresi gli scavi archeologici. I ricercatori dell’Università di Firenze diretti da Domenico Lo Vetro, docente di Archeologia preistorica, hanno infatti eseguito nuovi studi nelle prime due settimane di settembre in collaborazione con Unisalento e coi colleghi del Museo e Istituto fiorentino di Preistoria. Una prima tranche di indagine si è dunque appena conclusa.

 Lo scorso anno gli archeologi dell’ateneo fiorentino avevano ottenuto tramite una richiesta inoltrata alla Soprintendenza dei beni archeologici, belle arti e del paesaggio di Lecce e Brindisi una concessione ministeriale di dodici mesi per indagare l’area della Grotta delle Veneri. Dal 2022, la concessione è stata rinnovata con durata triennale. I ricercatori scandaglieranno dunque quella porzione di basso Salento fino al 2024. A questa prima fase di ricerca, ne seguirà un’altra il prossimo anno e così via. La campagna terminata nelle scorse ore è stata sostenuta anche dall’amministrazione comunale di Parabita, che ha fornito una somma di 3mila euro per il vitto del team di ricerca, organizzando il pernottamento degli archeologi presso la residenza artistica locale.

Il sito archeologico di Grotta delle Veneri

Antonio Greco, parabitano, docente di Storia dell’arte e disegno in pensione, in quell’estate del 1965 aveva 25 anni e una incontenibile passione per la storia. Assieme a Giuseppe Piscopo e Giuseppe Coluccia, entrambi studiosi e speleologi, era solito girovagare tra grotte e campagne alla ricerca di reperti e luoghi di interesse archeologico. Quella in cui ha sede la Grotta delle Veneri è una delle numerose campagne della zona, un terreno privato sul quale “in quegli anni si vociferava della presenza di un tesoro”, ci racconta Antonio Greco. “Vi erano diverse altre grotte attorno che andavo a esplorare. E se non lo facevo, era come se mi mancasse qualcosa. La gente del posto si chiedeva che cosa trovassi di tanto divertente in quel girovagare per setacciare grotte. Forse pensavano fossi un pazzo”.

Poi arriva quel giorno in cui si imbatte con l’amico Piscopo nella grotta delle Veneri. Un varco minuscolo, oscuro, ricoperto dalle radici di un albero di fico e quasi impercettibile. “Ero il più piccolo di statura tra gli amici, mi ci sono infilato legato a una corda, carponi. La grotta aveva una volta bassissima, alta poche decine di centimetri. Ci passava appena la testa, per cui ho immaginato che sarei riuscito ad attraversarla anche col corpo. Vedevo uno spazio oltre il cunicolo: volevo raggiungerlo. La luce della torcia  ha illuminato una grossa pietra che non era però fissa. L’ho smossa con le mani fino a farla cedere. Venuta giù, ho potuto guadagnare lo spazio fino a una sorta di camera rotonda, strisciando. Sono così riuscito poi a voltarmi e a tornare indietro. Prima di abbandonare la grotta apPHOTO-2022-09-17-11-23-22-2pena scoperta, però, ho portato con me pezzi di selce. Abbiamo da subito intuito che cosa ci fosse lì dentro. Il giorno dopo eravamo di nuovo sul posto per cercare di fare chiarezza. Abbiamo trovato immediatamente del materiale che, anche nei giorni a seguire, sarebbe stato consegnato a Piscopo e ppoi ai ricercatori”, prosegue Antonio Greco (nella foto accanto assieme al direttore degli scavi Lo Vetro.

Fa riferimento a decine di migliaia di reperti, ora custoditi fra il museo tarantino e quello di Lecce. Ceramiche preistoriche, manufatti, selci, vasellame, pietre incise, cocci. Poi, durante gli scavi di quell’estate, spuntano da una cavità le due statuine raffiguranti le figure dalla femminilità molto pronunciata, simili ad altre rinvenute in altri luoghi d’Europa. “Le consegnai a Piscopo, che le mostrò al professor Pagliara, docente di Archeologia classica. In un primo momento si pensò a reperti di epoca greca, ma si trattava in realtà di un reperto preistorico. Quelle statuette furono poi mostrate al professor Antonio Mario Radmilli dell’Università di Pisa, che condusse i primi gli scavi poi sostituito da Giuliano Cremonesi”.

La fisionomia delle statuine, con ogni probabilità utilizzate per scopi decorativi e corredo funerario, richiama il canone della “cultura del periodo cosiddetto Gravettiano, di circa 25mila anni”, come spiega il professor Domenico Lo Vetro, direttore degli scavi di Parabita. “Il progetto è  finalizzato non solo alla ricerca scientifica, ma vuole anche rispondere alla richiesta di una possibile fruizione di questa cavità. La grotta è  all’interno di un parco archeologico: ci sembra doveroso lavorare per consentire alla comunità di accedere alla cavità, al momento chiusa da una cancellata”, prosegue l’accademico.

La storia degli scavi nell’area del ritrovamento delle due Veneri è piuttosto complessa. Nel 1965 la scoperta, poi l’avvio dei primi  studi nel 1966 che procedono fino al 1972. Ricerche dirette da Radmilli dell’Università di Pisa, con una docenza anche presso l’ateneo leccese. “Nel 1967 Radmilli passa il testimone a Giuliano Cremonesi, suo allievo, per la prosecuzione dell’indagine. Studi che conducono alla situazione attuale”, spiega Lo Vetro. “Diverse trincee di scavo in quegli anni  hanno svuotato in buona parte la grotta del deposito archeologico, ma si sa che gli scavi sono delle operazioni di distruzione. Si asporta il deposito con molta cura per poter rinvenire i reperti che contiene. E le ricerche recentemente pubblicate nel volume di Elettra Ingravallo e Renata Grifoni Cremonesi hanno consentito di documentare la frequentazione dell’uomo preistorico all’interno di questa grotta”.

La grotta ha una storia molto lunga, stando al racconto del direttore degli scavi, e vanta una frequentazione umana che si è protratta per diverse miglia di anni. “Le ricerche degli anni ‘60 hanno consentito di documentare una frequentazione che parte dall’uomo di Neanderthal, una fase recente del Musteriano (intorno ai 50mila anni), poi la fase terminale quella che chiamiamo Uluzziano, che prende il nome proprio dalla Baia di Uluzzo, tra i 40 ei 35mila anni, attribuita al Neanderthal e che corrisponde all’arrivo del Sapiens in Europa. Sappiamo che la vita all’interno della grotta continua con il Sapiens, con una cultura che chiamiamo Gravettiano e che si data attorno ai 25- 26mila anni fa. È appunto a questa fase che risalgono la sepoltura e le due Veneri”, continua.

Alla domanda su eventuali tracce che delineino la struttura sociale di quell'era, il docente dell’ateneo fiorentino ha indicato l’esistenza di gruppi familiari, limitati nel numero, ma che interagivano tra loro. Un dato interessante sembra essere quello del cambiamento del rapporto tra natura e uomo, sulla scorta dei cambiamenti climatici.  “Sappiamo ad esempio che i Neandertaliani si erano adattati a vivere in un certo contesto caratterizzato da un clima molto freddo. Il Sapiens giunge in Europa 45mila anni fa, dimostrando di aver sviluppato aspetti cognitivi e conoscenza che Neanderthal non aveva. Come li giudichiamo questi aspetti cognitivi? Guardando alle produzioni: non solo utensili finalizzati alla mera sussistenza,  ma oggetti d’arte. Quello è un elemento fondamentale che ci dice quanto queste popolazioni dei Sapiens fossero moderne. Riconosciamo una capacità nel “fare segno”, quello che chiamiamo arte preistorica, che è paragonabile alla nostra”.

Ma da cosa è dato il prestigio di questo sito?Sicuramente dalla sua lunga storia. Quindi dalla documentazione archeologica che ci dice che questo sito è stato frequentato per millenni”, ci risponde Lo Vetro. E tra i reperti più noti rinvenuti, oltre alle due celebri statuette? “Sicuramente la sepoltura con i due individui contemporanea alle Veneri e tutta la produzione figurativa che attribuiamo alla cultura romanelliana (prende il nome da Grotta Romanelli): ultime popolazioni tra la fine del Paleolitico e l’inizio del Mesolitico, intorno ai 10 mila anni, che hanno lasciato pietre incise con incisioni di diverso genere anche su manufatti ossei”.

Fra i reperti della grotta, ci racconta il direttore degli scavi, anche del vasellame in quantità, invenzione del Neolitico. Le decorazioni rinvenute sulla ceramica a Parabita sono le stesse diffuse in altre regioni dell’Italia meridionale. Ritrovamenti preistorici simili, dunque, documentati anche altrove. Un ulteriore motivo per immaginare - al momento pur senza evidenze scientifiche - che una vasta area abbia ancora da svelare tracce e risposte agli interrogativi del passato, restituendoci frammenti di storia da altre grotte, vicine e lontane. Custodie sotterranee di memoria e verità del tempo.

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